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Che succede davvero all’occupazione

Circolano valutazioni ottimistiche in materia di assunzioni grazie al combinato disposto degli incentivi, fiscali e contributivi, previsti dalla legge di stabilità e dal contratto a tutele crescenti. Non è chiaro quale sia il fattore che ha pesato di più nelle decisioni delle oltre 70mila imprese che – secondo quanto ha affermato il presidente Tito Boeri in un incontro con le parti sociali hanno chiesto all’Inps i codici necessari per accedere all’operazione.

Analoghe considerazioni provengono dal Ministero del Lavoro. Sembrerebbero così trovare conferma due tesi a lungo sostenute nel dibattito, spesso partendo da posizioni contrapposte: sui livelli d’occupazione e sulla loro qualità incidono sia il costo del lavoro, sia le regole del recesso. Non siamo in grado di sapere che cosa succederà se e quando lo Stato smetterà di pagare le aziende (è ciò che sta avvenendo in pratica) perché assumano a tempo indeterminato e se basterà una disciplina meno rigida del licenziamento per compensare oneri sociali ritornati di nuovo insostenibili.

Potrebbe anche capitare che, in quel momento, i due elementi (il bonus e la pratica archiviazione dell’art.18 per i nuovi assunti) ora in sinergia virtuosa a favore delle assunzioni, si trasformino in un percorso più facile per il licenziamento. Poiché ogni giorno ha la sua pena prestiamo attenzione a quanto avverrà in concreto sul terreno del mercato del lavoro: le insidie, infatti, sono sempre lì in attesa di coglierci alla sprovvista.

Proprio in questi giorni ci siamo ricordati di un saggio a cura della Conferenza Episcopale Italiana (Per il Lavoro, Rapporto-Proposta sulla situazione italiana, 2013, Edizioni Laterza), di pubblicazione non recente, ma egualmente meritevole di attenzione, perché prefigurava, nel momento in cui è stato redatto, quanto potrebbe accadere nei prossimi mesi, pur nel contesto di un fragile avvio della ripresa. Il Rapporto denuncia il rischio “che le aziende si riorganizzino, adattandosi ai nuovi livelli permanentemente più bassi, attraverso ristrutturazioni della produzione o anche vere e proprie chiusure di stabilimenti”; che si produca, quindi, un “cambiamento strutturale della morfologia del nostro mercato del lavoro” e del capitale umano, in conseguenza della riduzione della base produttiva del Paese.

Se questo è il pericolo che corre l’economia italiana, per valutare l’impatto sulla popolazione lavorativa – sostiene in pratica il Rapporto – non è sufficiente fare il bilancio della disoccupazione “ufficiale” (e quindi – aggiungiamo noi – della nuova occupazione attesa), ma occorre penetrare in quella “zona grigia” in cui “una persona non classificata tra i disoccupati non è molto distante da tale condizione”. A tal fine il Rapporto compie tre operazioni di “rettifica” delle statistiche ufficiali. Innanzi tutto, viene ampliato fino al 66° anno (dal 15°) il perimetro della popolazione in età di lavoro per tenere conto degli effetti della legge Monti-Fornero sulle pensioni.

Vengono poi indicate due nuove definizioni ritenute più corrispondenti alle situazioni di fatto: 1) quella di forza lavoro allargata inclusiva anche dei c.d. “scoraggiati” in quanto – come è già accaduto negli ultimi tempi – è in atto un processo di allargamento di coloro che cercano di entrare nel mercato del lavoro, in conseguenza dell’affievolirsi di quelle reti di protezione familiari che consentivano, soprattutto ai giovani, di attendere occasioni lavorative da loro ritenute più adeguate; 2) quella di occupazione ristretta, che esclude i cassintegrati e i soggetti in part time involontario, evidentemente considerati in una condizione di sottoccupazione.

Sulla base di queste due definizioni il Rapporto CEI arriva a calcolare che, dal 2007 al 2011, a fronte di un incremento di 580mila unità della forza lavoro allargata vi è stata una riduzione di 770mila persone nell’occupazione ristretta. Secondo tali criteri, dunque, i disoccupati in quel periodo sarebbero 1,35milioni e non 600mila come registrato dalle statistiche ufficiali. Il Rapporto, poi, affronta – sulla base dei presupposti di un aumento della partecipazione al mercato del lavoro e degli effetti della riforma pensionistica – le tendenze della domanda e dell’offerta di lavoro al 2020. Viene previsto, nel medio periodo, un aumento delle forze di lavoro di circa 2,4milioni di unità rispetto al 2001, a cui occorrerà rispondere creando altrettanti nuovi posti di lavoro soltanto per non peggiorare il tasso di disoccupazione e ritrovarsi in una situazione in cui sia l’incremento della partecipazione sia l’innalzamento dell’età pensionabile si traducano in “un aumento del livello strutturale del tasso di disoccupazione”.

Per il completo assorbimento della forza lavoro aggiuntiva il Rapporto considera necessaria una crescita dell’occupazione ad un tasso medio annuo dell’1%. Tale maggiore offerta di lavoro appare assorbibile – secondo il documento CEI – “con una dinamica del Pil mediamente dell’0,9% sull’intero periodo, il che implica una crescita – prosegue – prossima all’1,5% nella seconda metà del decennio (a partire cioè da quest’anno, ndr) per compensare la contrazione del 2012-2013”.

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