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Il grande tabù sulla Buona Scuola Pubblica Italiana

scuola

Libertà di scelta educativa, pluralità di offerta formativa, merito, docenti sottopagati, diplomifici, scuole private e scuole pubbliche, senza oneri per lo Stato, spending review, costo standard, autonomia e valutazione: “vuotiamo il sacco”- o meglio la borsa di Mary Poppins! – pazientemente e con ordine, nello spazio di un  blog che ha voglia di chiamarsi “confronto” tra menti sane e razionali.

Questo spazio si apre ad hoc su discussioni infuocate, le migliori, sul grande tabù della scuola, quella vera, quella che è pubblica, cioè che appartiene al popolo (anche Radio Popolare ha ascoltato, chissà anche apprezzato e riproposto), quella che fa parte del Sistema Nazionale di Istruzione: la buona scuola pubblica per tutti, paritaria e statale. Questa è. Non altro. Il resto è scuola guida, scuola di calcio, scuola di marketing… ottime scuole “private” che fanno un servizio specifico a chi ha un interesse specifico. Ma “scuola pubblica” è altro. Il popolo fa fatica con gli aggettivi qualificativi: confonde e interscambia “pubblico” e “statale”. Errore. Non coincidono. Questo blog è pubblico, ma non è statale. Ci mancherebbe! Sarebbe la morte del blog… Dunque una vera scuola  deve essere pubblica (cioè utile per tutti, sceglibile da tutti) ma non è detto che debba essere statale… Forse meglio che no. O se sì, che funzioni, sempre e comunque. Che una insegnante di Inglese sia quel che deve essere a Milano-zona-1 come a Ragusa-Ibla, pagata allo stesso modo, formata allo stesso modo, per lo stesso titolo legale che ha. Nella buona scuola pubblica, paritaria o statale che sia. E che il voto “otto” che viene assegnato a Pierino nella scuola pubblica, paritaria o statale, di Ragusa-Ibla resti comunque un “otto” per lo stesso Pierino che si è trasferito nella scuola pubblica, paritaria o statale, di Milano-zona-1. E viceversa. Un otto è un otto. Non può diventare un tre. L’inglese è l’inglese. Non può diventare cinese. Non mi rassegno.

Ma ma ma… finchè le scuole saranno monadi autoreferenziali e finchè il genitore (anche il povero diavolo) non potrà scegliere, certe cose capiteranno: non capitano dove la scuola è messa alle strette, dove c’è confronto tra scuole pubbliche paritarie e statali; non capitano dove c’è libertà di scegliere il meglio per il proprio figlio, in una pluralità di offerta, all’interno del servizio pubblico, integrato proprio perché io mamma, io papà (ebbene, sì!!!) possa scegliere: se il servizio pubblico fosse solo statale non potrei scegliere; come genitore sarei obbligato, cioè interdetto, incapace di intendere e di volere….

Ma insomma da che parte sta il diritto, quello che conta, quello da difendere? Proviamo a fare un po’ di chiarezza senza partiti presi ma anche senza pregiudizi, con la forza della conoscenza e della ragione che vanno ben oltre i pareri personali e i giochi politici o di colore. Insomma, un percorso incolore e inodore ma utile, perchè oggettivo. Contestiamo e discutiamo senza freni ma ad una sola condizione: usiamo la ragione, adoperiamo il principio di non contraddizione. Chi non lo usa – cioè chi non ragiona – è un tronco, diceva Aristotele.

Dunque ragioniamo: la famiglia possiede una sua specifica e originaria dimensione di soggetto sociale che precede la formazione dello Stato; è la prima cellula di una società e la fondamentale comunità in cui sin dall’infanzia si forma la personalità degli individui. Un gruppo di famiglie cavernicole dell’età della pietra (Flintstones & friends) formavano una società ed erano soggetti di diritto, ma non erano uno Stato; uno Stato, per essere tale, necessita almeno di una società di famiglie cavernicole, che ne giustifichino l’esistenza. In soldoni: è lo Stato al servizio della famiglia, non viceversa.  Chi non concorda può liberamente cambiare blog.

Quindi lo Stato repubblicano non “attribuisce” i diritti alla famiglia, ma si limita a “riconoscerli” e a “garantirli”, in quanto preesistenti allo Stato, come avviene per i diritti inviolabili dell’uomo, secondo quanto dispone l’articolo 2 della Costituzione italiana e – temporalmente, subito dopo quest’ultima – la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

Solo da qui possiamo ripartire per trovare le motivazioni giuridiche atte a riflettere ed eventualmente a comprendere come poter sanare il guasto evidente della società contemporanea, dovuto anche alla grave crisi della famiglia, rivelata dalle sue fragilità: debolezza economica, sanitaria, psicologica, culturale.

Una civiltà che non è in grado di difendere la vita dei più deboli, dei nascituri, dei più poveri e degli ammalati, uno Stato che non riconosce e non difende il diritto primordiale alla scelta in ambito educativo da parte dei Genitori, si condannerebbero – civiltà e Stato – alla disumanizzazione e finirebbero per rinnegare i principi democratici, espressi a parole nella carta costituzionale:

“La Costituzione è il fondamento della Repubblica. Se cade dal cuore del popolo, se non è rispettata dalle autorità politiche, se non è difesa dal governo e dal Parlamento, se è manomessa dai partiti verrà a mancare il terreno sodo sul quale sono fabbricate le nostre istituzioni e ancorate le nostre libertà.” (Luigi Sturzo).

Per oggi è sufficiente riflettere su questi punti. Inutile proseguire l’avventura, senza fondazioni di cemento armato.

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