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Vi spiego le vere tensioni tra Camusso e Landini. Parla Michele Magno

“Sindacalista pentito, ma non troppo” e “comunista pentito, ma non troppo”, si definisce Michele Magno, pugliese, classe 1944 studioso di questioni sociali e del lavoro che della Cgil (e del Pci) è stato dirigente.

Di sindacato si occupa spesso su ItaliaOggi e su Formiche.net dove tiene il suo seguitissimo Bloc Notes. Magno, per ragioni biografiche e di ricerca, segue quindi con attenzione lo scontro fra Maurizio Landini e Susanna Camusso a causa della scelta, del primo, di voler creare un movimento sociale e politico.

Magno, a lei che effetto fa, innanzitutto, questo sindacato pronto a diventare forza politica?

Beh, intanto mi lasci dire che il richiamo alla necessità di una “coalizione sociale” in bocca a un sindacalista fa un certo effetto.

In che senso?

Massì, un sindacalista che, un giorno sì e l’altro pure, ripeta questa espressione, è una cosa priva di senso, perché il sindacato, specialmente se confederale, è già una coalizione sociale, dato che si batte per rappresentare non solo gli occupati di varie categorie, ma anche i precari, i lavoratori a tempo determinato, quelli che svolgono i nuovi lavori e anche le “partite iva”. Insomma, il sindacato intende già tutelare quei soggetti che Landini promette di riunificare.

La Cgil stessa non ha una sua federazione per i lavoratori precari?

Certo, la Nidil che si occupa dei cosiddetti “intermittenti”, saltuari e precari appunto. Ma allora mi faccia aggiungere una cosa…

Prego.

Soltanto la povertà culturale della battaglia di idee che contraddistingue la sinistra italiana può aver dato rilievo e, mi scusi, un rilievo assolutamente eccezionale, a una prospettiva politica programmatica, assolutamente inconsistente.

Come se lo spiega?

Con la società dello spettacolo. Il giornalismo, la spettacolarizzazione della politica, hanno creato, e sono disponibili a creare personaggi, a produrre icone. Proprio così: a trasformare, leader sindacali e politici, in immagini pubblicitarie.

Beh, però Landini c’è, Camusso lo sollecita ad andare o stare. Chi ha ragione?

Se la coalizione sociale di Landini vuole essere la costruzione un movimento nuovo, imperniato su una rete di alleanze e di patti con associazioni della società civile, per lottare contro le politiche di lavoro del governo di Matteo Renzi e quant’altro, allora ha ragione Camusso.

Perché?

Perché Landini propone cosa diversa dal sindacato, ossia da quella organizzazione di interessi che rappresenta prioritariamente i lavoratori dipendente e i pensionati e che cerca di contrattare con datori di lavoro e con la Pubblica amministrazione condizioni migliori per i proprio scritti.

Siamo dinnanzi a un partito…

Un partito, o un movimento, che comunque sono altro da un’organizzazione sindacale. Però mi faccia aprire una parentesi.

Faccia pure…

È francamente stupefacente che basti, a Landini, riunire a Corso Trieste a Roma, cioè stanzuccia di Fiom, qualche amico, che si tratti di associazioni come l’Arci e i comitati per l’acqua o di singoli come Luigi Ciotti, per parlare di un nuovo soggetto politico. Ciò dimostra il vuoto politico e culturale che caratterizza il dibattito a Largo Nazareno (sede nazionale del Pd a Roma, ndr).

Ma per lei come finisce questo tentativo del segretario della Fiom?

Nasce male, cresce peggio e mi aspetto che muoia tra qualche settimana.

Addirittura?

Sì e per due ragioni. La prima è la sua inconsistenza politico-culturale dell’iniziativa stessa: non mi risulta che Landini abbia dotato la sua creatura di un progetto che vada oltre la proposta di un referendum contro il Jobs Act. Oltre, c’è solo qualche urlo, sguaiato, che denunicia il neoassolutisimo.

Insomma, manca un programma…

Certo. E in secondo luogo, questa coalizione non coalizza. L’associazione di associazioni contro le mafie “Libera”, per esempio, ha già fatto sapere che non aderirà, perché don Luigi Ciotti, che la guida, non è certo un ingenuo. Se qualche associazione che fa capo a Libera si metterà con Landini, lo farà autonomamente. In più la Cgil è fortemente schierata contro; e la sinistra democratica è tiepida, per non dire fredda. Non vedo, alla fine, su quali truppe Landini possa contare.

Senta ma lo scontro Camusso-Landini non è certo cosa nuova. Ormai va avanti da più di un anno.

C’è uno scontro di poteri fra i due, anche perché il segretario Fiom sta surclassando mediaticamente il segretario generale che, bisogna dirlo, è una figura un po’ sciapita. Landini perde consenso nella fabbriche, clamoroso il dato dello stabilimento Fiat a Melfi (Pz), e acquista popolarità in televisione.

C’è uno scontro anche su un’idea di sindacato, però.

Sì, in modo strumentale o sincero e questo non mi interessa, comunque Landini pone un problema vero: il rinnovamento della Cgil, della sua democrazia interna, dei processi in cui si formano le decisioni, della selezione della dirigenza. Ha lanciato l’idea di primarie, sul modello della politica. Vuole ridurre il potere e il peso dei delegati delle singole federazioni e dei comitati direttivi, dove vige la cooptazione.

Dal che sembrerebbe che la Cgil non sia proprio il trionfo della democrazia…

Come mi diceva uno dei miei maestri, Lucio Colletti, è un po’ come per il Pci di alcuni decenni fa.

E che succedeva a Botteghe oscure?

Colletti spiegava così il funzionamento dei congressi: il segretario nominava la direzione, questa nominava il comitato centrale e il comitato nominava la platea del congresso (ride).

La democrazia rovesciata…

Sì, anche se bisogna ammettere che, da vari anni, la Fiom agisce come un para-partito: poca contrattazione e molte chiacchiere. Anche se si rintraccia una certa doppiezza togliattiana anche nella federazione dei metalmeccanici.

Vale a dire?

A Roma, si fa l’ideologismo, si pronunciano gli slogan, le parole d’ordine mentre, in periferia, nei territori e nelle fabbriche, si fanno le trattative. Insomma, lontano dalla Capitale, i sindacalisti fanno il loro mestiere: si occupano di turni, di produttività, di salario.

Sul ruolo politico del sindacato si è discusso molto. Però la Cgil di politica ne ha sempre fatta, qualcuno la definiva la cinghia di trasmissione del Pci.

Sì, ma non è mai stata un partito. Dai tempi di Giuseppe Di Vittorio fino a Bruno Trentin il sindacato ha avuto la sua autonomia. Lo stesso Trentin ha parlato di “soggetto politico”, volendo sottolineare quello che dicevo poc’anzi e cioè che il sindacato, tutelando i lavoratori, non può che parlare di giustizia sociale, reddito, fisco, modernizzazione della Pubblica amministrazione. Anzi col Pci non mancò qualche tensione.

Quando?

Alla fine degli anni ’60 quando il partito era contrario al sindacato dei consigli di fabbrica ma quando Luciano Lama diventà segretario, nel 1970, capì che bisognava trarre il meglio da quell’esperienza.

Torniamo alla scontro Cgil-Fiom. Come finisce, secondo lei?

Rimarranno un po’ di macerie: non che la casa crolli, ché la struttura è ancora forte, ma certo è esplosa una contraddizione, i cui esiti è difficile valutare. Potrà essere anche spiegata, accantonata, ci potrà essere una composizione ma certo ha creato, anche sul piano dei rapporti personali, ferite non rimarginabili.

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