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Libia e sbarchi, perché l’Italia non utilizza droni americani? Parla il generale Tricarico

Tra tutte le misure al vaglio di Palazzo Chigi per bloccare il flusso incontrollato di migranti nel Mediterraneo manca forse la più efficace: l’utilizzo di droni, uno strumento versatile ed efficace, soprattutto in questo caso.

È l’opinione del generale Leonardo Tricarico, già capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, oggi presidente della Fondazione Icsa, che in una conversazione con Formiche.net spiega perché i velivoli a pilotaggio remoto possono risolvere una volta per tutte il problema delle tragedie nei nostri mari. E rivolgendosi a Bruxelles dice che…

Generale, si è consumata da poco l’ennesima tragedia nei nostri mari. Come valuta le misure di contrasto al fenomeno che sta mettendo a punto Palazzo Chigi?

Purtroppo non è stata ancora presa in considerazione l’unica soluzione praticabile senza alcuna difficoltà tecnico operativa e senza che una goccia di sangue venga versata, neanche quella dei criminali che gestiscono il traffico.

Di cosa parla?

Basterebbe usare droni armati per distruggere le navi degli scafisti tirate in secco sulle spiagge libiche e ridurre così i flussi migratori verso l’Europa.

Ma noi non ne abbiamo. Dovrebbero venderceli gli Usa e finora hanno risposto picche.

Inizialmente potrebbero prestarceli e nel frattempo potremmo negoziarne l’acquisto. E’ vero, fino a questo momento si sono sempre detti contrari, ma da diverse parti mi hanno assicurato che i tempi sono maturi per farlo. Washington ha cambiato idea in merito.

Crede che nel loro recente incontro Barack Obama e Matteo Renzi ne abbiano parlato?

Non mi risulta che il nostro premier abbia chiesto dei Predator, ma non sarebbe un problema irrisolvibile, né bisognerebbe aspettare un altro vertice di tale livello. E’ una questione che può nascere e morire in ambito militare.

Renzi ha detto no al blocco navale o alle truppe di terra perché potrebbero essere o poco efficaci o scambiate per un atto di guerra. Cosa le fa pensare che bombardare con i droni sarebbe diverso?

Procediamo per punti. Il blocco navale sarebbe effettivamente una misura eccessiva e necessiterebbe ad ogni modo di ottenere l’avallo del Consiglio di sicurezza dell’Onu, con il rischio di esporsi a un veto. Non credo costituirebbe un taxi per i terroristi, anzi. Ma sarebbe un’azione troppo drastica.

E le truppe di terra?

Idem. Non ha senso, meglio un’azione di polizia internazionale sotto l’egida dell’Onu, ma non sarebbe sufficiente. Non rimane che la soluzione che ho delineato, che non sarebbe intesa come un atto di guerra, perché in verità sarebbe in perfetta continuità con le iniziative già intraprese con il precedente governo libico insediatosi subito dopo la caduta di Muammar Gheddafi.

Interessante, ma forse utopico in questo momento. Ci sono almeno due governi, ora, in Libia.

Vero, ma credo che sia un falso problema. L’importante è porre bene la questione. C’è bisogno di avvicinare le parti libiche e dire loro che non abbiamo voglia di decidere il loro futuro, che non ci saranno ingerenze da parte nostra. Ma loro devono consentirci di mettere in sicurezza l’area, senza fare occupazioni, per carità, ma mettendo a punto in piano congiunto tra loro aeronautica, quella italiana e quella europea.

Funzionerebbe?

Farebbero un favore anche a loro stessi. Criminali e terroristi sguazzano nel caos. Non sarebbe troppo pretendere, quale dividendo per il contributo decisivo dato alla liberazione della Libia da Gheddafi, di avviare su una piccola porzione del territorio libico una serrata lotta alla criminalità e forse anche al jihadismo. Bisogna offrire alla controparte libica, ora in seduta negoziale permanente a Rabat, di condurre le operazioni in maniera congiunta, in affiancamento ai nostri militari nella stanza dei bottoni, fugando così ogni ipotesi di violazione della sovranità territoriale.

L’Europa si è sempre tirata indietro rispetto a questa tematica. Crede abbia cambiato idea?

Non lo so e francamente non è necessario. Al di là di queste operazioni, che non necessitano assolutamente un avallo di Bruxelles, noi – Fondazione Icsa – stiamo portando avanti un progetto concreto che sarà a breve presso le Istituzioni comunitarie attraverso l’onorevole Gianni Pittella, capogruppo dei Socialisti e Democratici nel Parlamento europeo.

Che cosa prevede?

Nel solo 2014 in Mediterraneo sono morti oltre 3.419 migranti. Di fronte a questa tragedia umanitaria, in corso da anni e senza reali prospettive di diminuire nel breve termine, la risposta dell’Unione Europea è stata inadeguata sotto ogni aspetto, non solo perché la gestione del problema è stata di fatto considerata riguardare un solo Paese membro, l’Italia, ma soprattutto perché affrontata come problema di sicurezza delle frontiere anziché in termini di salvaguardia della vita umana in mare. Tale obbligo è sancito da numerosi accordi internazionali, in vigore da decenni e firmati da tutti i Paesi membri.

Gli accordi sono attuati?

Di fatto, i singoli Paesi concordano da sempre sull’obbligo di salvare le persone in mare, ma tale obbligo non è stato mai sottoscritto dall’Unione Europea in quanto tale né sancito dal Consiglio d’Europa nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Per salvaguardare la vita umana in mare, è necessario che l’Europa recepisca l’obbligo – già vigente e riconosciuto di recente anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo – attraverso un Protocollo aggiuntivo alla Cedu, secondo la procedura già seguita ben 14 volte per ampliare la tutela a diritti non previsti dal testo originale del 1950. Ciò sarebbe in pieno accordo con lo spirito della Cedu, che nel preambolo si rifà esplicitamente alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dall’Onu nel 1948.

Non è un percorso troppo tortuoso?

Affatto. Allineare le due normative non creerebbe nuovi obblighi, ma porterebbe la questione della salvaguardia della vita in mare sotto la giurisdizione della Corte europea dei diritti umani, rendendo quindi sanzionabile chi omette di soccorrere chi è in pericolo di vita. Su questi presupposti, sarebbe più efficace promuovere politiche allineate con i valori umani e morali della Ue, elaborando uno schema tecnico-legislativo che preveda la costituzione di un’agenzia europea di ricerca e soccorso in mare (Eurosar), con standard tecnici e prestazioni minime vincolanti, senza affidare, come sinora accaduto, funzioni di soccorso ad organizzazioni continentali i cui compiti istituzionali sono finalizzati al pattugliamento delle frontiere esterne aeree, marittime e terrestri degli Stati della Ue. Si onorerebbe così il Premio Nobel per la Pace attribuito all’Ue nel 2012 e si raccoglierebbe l’invito fatto da Papa Francesco al Parlamento Europeo nel novembre 2014.

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