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Libia e sbarchi, perché è inutile appellarsi all’Europa. Parla Carlo Pelanda

L’ennesima tragedia del mare non deriva solo dall’instabilità libica, ma anche da una scorretta gestione dei flussi migratori da parte dell’Italia, che dovrebbe smettere di invocare l’evanescente Europa e risolvere il problema da sé.

È l’opinione di Carlo Pelanda (nella foto) coordinatore del dottorato di ricerca in geopolitica e geopolitica economica dell’Università Gugliemo Marconi di Roma ed editorialista di Milano Finanza – che, in una conversazione con Formiche.net, spiega in che modo Palazzo Chigi potrebbe trasformare l’immigrazione da spesa a risorsa.

Professore, ieri si è consumata l’ennesima tragedia nei nostri mari e il governo sta mettendo a punto misure che ne impediscano di nuove. Come le valuta?

Questa volta c’è stato un impatto emotivo diverso, dovuto al maggior numero di morti, circa 700. Ma non è accaduto nulla che non si fosse già verificato più e più volte. Spero che qualsiasi iniziativa venga messa in campo non parta dallo shock per quanto si è verificato, ma da un’analisi seria di come si muovono i flussi migratori e di come governarli. Ci sono aspetti da non sottovalutare.

Quali?

Pur nella tragedia, c’è un dato particolarmente interessante: il costo di questi viaggi della speranza verso le nostre coste si è praticamente dimezzato nel giro di un anno, passando dai 3000-3500 dollari ai 1000-1500 di oggi. Questo indica diverse cose. In primo luogo una maggiore concorrenza criminale in questo business, che spesso si sovrappone, ma non è un tutt’uno con i gruppi terroristi che infestano la regione. Ma anche il fatto che forse i flussi dalla Libia verso l’Europa sono in crisi, contrariamente a quel che appare.

Ciò non toglie che ci si trovi di fronte a un problema. Cosa dovrebbe fare il governo italiano?​

Mi rendo conto che, per una media potenza come l’Italia, le rivendicazioni etiche costituiscano un fondamentale strumento diplomatico e di pressione. Così non è per Paesi che hanno a disposizione un ventaglio più ampio di opzioni, come quella militare. Ma il principale obiettivo di Palazzo Chigi non dovrebbe essere quello di chiedere maggiori soldi o controlli. Considero ingenuo questo nostro accanimento nel chiedere la collaborazione – o peggio il sostegno – di altre nazioni europee per risolvere questo problema. L’Europa non esiste come progetto politico, almeno non più. Se io fossi tedesco non prenderei mai in considerazione l’ipotesi di aiutarci, a che pro? Piuttosto dovremmo approntare una nuova gestione dell’immigrazione che vada oltre l’aspetto umanitario.

Come?

Innanzitutto bisogna smettere di raccogliere gli immigrati appena arrivano e smistarli sul territorio nazionale. Si tratta di un approccio sbagliato in primo luogo perché distribuisce sul territorio fattori d’instabilità e dissenso politico. E poi perché costituisce un elemento di attrazione irresistibile per i flussi migratori incontrollati, che vedono in noi una stazione di transito. Il viaggio vale la scommessa, che però, spesso, mette a repentaglio la stessa vita di chi parte. In questa audacia, però, c’è anche un elemento positivo. Escluso chi cerca asilo, chi intraprende questi viaggi per trovare occupazione è davvero motivato e potrebbe costituire uno straordinario capitale umano.

Quindi che cosa si dovrebbe fare?

Dovremmo, come Paese moderno, essere in grado di sfruttare al meglio queste risorse, costruendo per loro centri dedicati dove intraprendere percorsi di integrazione, formazione e imprenditorialità. Il nostro è un Paese in stagnazione demografica, non può permettersi di non attrarre e selezionare immigrazione qualificata. Ci sono due Paesi che già lo fanno: la Germania, senza dirlo, ma con ottimi risultati; e gli Usa, dicendolo, ma con risultati meno buoni di quel che potrebbero. Serve fare un piano che immagini il ruolo ricoperto e il valore aggiunto apportato da queste persone nel nostro Paese in un lasso di tempo ragionevolmente lungo, almeno 25 anni. In quel caso l’immigrazione non sarebbe solo un costo, ma anche un investimento.

Cosa fare in caso questo progetto fallisse?

Se lo scarso consenso dovesse impedire questo tipo di soluzione, allora bisognerebbe optare per un’opzione B, ovvero gestire l’immigrazione come un problema sicurezza, quindi il più lontano possibile dai propri confini. La scelta migliore sarebbe quella di creare campi di transito in Paesi della regione, come Tunisia o Egitto, dove scremare sotto la bandiera dell’Onu chi ha diritto all’asilo e chi invece no.

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