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L’accordo con l’Iran e l’engagement obamiano

Quando Javad Zarif il ministro degli Esteri iraniano è rientrato in patria da Losanna, con l’accordo sul nucleare in tasca, lo hanno accolto con lo stesso clamore con cui i tifosi italiani accoglierebbero la squadra vincitrice della Champions League: gente in tripudio, caroselli d’auto. E c’è da giurarsi che la Repubblica Islamica abbia esortato i propri cittadini ad essere, diciamo così, entusiasti: ma non c’è dubbio che ci sia pure un sincero sentimento di fondo, anche perché l’economia iraniana è ormai fiaccata dalle sanzioni e appesantita dal crollo del prezzo del petrolio, dunque l’apertura è vista come una possibilità di ripresa.

Si sancisce l’alba di un nuovo mondo, con la derubricazione della minaccia globale del nucleare iraniano a funzione controllabile. Uno «storico accordo» l’ha definito il presidente americano Barack Obama parlando dal Rose Garden, il giardino della Casa Bianca che aveva fatto da scenario alla passeggiata che aveva fatto cambiare idea al Prez, spinto dal suo chief of staff Denis McDonough, sul bombardare la Siria di Assad, fedele e amata alleata iraniana, nei giorni successivi all’atroce attacco chimico a Damasco. Succedeva meno di due anni fa, ora l’Iran che appoggiava (e continua a farlo, sia chiaro) le barbarie del regime siriano, è diventato un alleato più o meno formale nella lotta allo Stato islamico, con il quale scendere a compromessi sul programma nucleare; e pure Assad è stato recuperato come un interlocutore potabile.

L’accordo

L’accordo trovato giovedì non è definitivo, ma dà un’impostazione quadro a ciò che verrà sancito entro il 30 di giugno ─ Piero Vietti del Foglio, ha detto la migliore a proposito: «Il negoziato sul nucleare mi ricorda quelli sul clima: “Accordo trovato, firmiamo poi la prossima volta”. E così all’infinito». Un’interpretazione plausibile, visto che, euforia a parte, Obama stesso ha riconosciuto che il lavoro è ben lungi dall’essere completo e che ci sarà «un robusto dibattito nelle settimane e nei mesi a venire».

L’intesa trovata tra l’Iran e i paesi del cosiddetto gruppo “5+1″, cioè i cinque che hanno il potere di veto al Consiglio di sicurezza dell’ONU (Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Russia, Cina) più la Germania, ha stabilito sei parametri fondamentali. A cominciare dalla riduzione dei due terzi delle centrifughe, che passeranno dalle 19mila attuali a 6.104 ─ di cui solo 5.060 adibite ad arricchire l’uranio, per i prossimi 10 anni. L’arricchimento dell’uranio è un passaggio centrale per la produzione della bomba atomica, che non verrà del tutto eliminato, ma Teheran ha accettato di non superare la soglia del 3.67% per almeno 15 anni (la soglia che discrimina l’ambito d’uso civile dal militare, è del 5%). Inoltre non verranno costruite nuove centrali per arricchire l’uranio per almeno 15 anni, e gli iraniani convertiranno il centro segreto sotterraneo di Fordow per scopi di ricerca pacifici, e pure il reattore ad acqua pesante di Arak (protagonista di una misteriosa esplosione nel 2013) sarà riconvertito e non sarà più in grado di produrre plutonio sufficientemente puro da poter essere usato per usi militari. L’unica centrale di arricchimento sarà quindi quella di Natanz, dove però verranno utilizzate solo le centrifughe meno tecnologiche. Altro punto importante è che gli ispettori dell’AIEA (l’agenzia internazionale per l’energia atomica) avranno accesso alle strutture per i controlli, e potranno visionare le centrali e i giacimenti di uranio. La controparte americana ed europea, si impegna a rimuovere le sanzioni commerciali ─ previa verifiche dell’AIEA sul rispetto dei parametri quadro. Questo aspetto era fortemente voluto dalla leadership teocratica iraniana ─ la Guida Suprema Ali Khameni aveva annunciato che l’eliminazione delle restrizioni commerciali doveva essere «parte dell’accordo, non una conseguenza successiva».

Fred Kaplan, giornalista americano esperto di politica internazionale, ha scritto su Slate che i parametri stabiliti a Losanna sono stati «molti di più e molto più dettagliati e restrittivi di quanto chiunque si aspettasse. E pure il New York Times ha pubblicato un editoriale firmato dall’Editorial Board con un titolo piuttosto esplicito: “Un promettente accordo sul nucleare con l’Iran”, sostenendo che in ottica futura, la stabilità del Medio Oriente aumenterà.

Sul piatto

Questa fase della trattativa è durata 18 mesi, ed è stata molto complicata anche perché, come spiegava sul Foglio Mohammed Reza Djalili, politologo e professore emerito dell’Istituto di alti studi internazionali di Ginevra, nella trattativa si intersecavano quattro livelli: «C’è l’aspetto bilaterale, quello dei rapporti tra l’Iran e gli Stati Uniti, quello multilaterale tra Teheran e i 5 più 1, molto macchinoso anche in ragione delle differenze tra i soggetti coinvolti: spiccano le distanze tra Parigi e Mosca. Il terzo livello coinvolge gli attori esterni contrari all’accordo, in particolare l’Arabia Saudita e Israele; e c’è infine un quarto livello rappresentato dal contesto regionale: l’avanzata dello Stato islamico, l’Iraq, la Siria, lo Yemen».

Se l’ethos rivoluzionario è il quid ideologico che gli ayatollah hanno messo sul piatto accordandosi con “il Grande Satana” americano, anche a Washington Obama ha giocato una sorta di all-in ─ ovvio pensare che entrambi gli attori, continuino a riservarsi una velata exit-strategy. La questione non è solo politica, o meglio legata alle contingenze politiche presenti ─ il GOP si è messo di mezzo più volte per far saltare tutto ─ e al futuro prossimo delle elezioni presidenziali. In politica estera la legacy di Obama è fortemente dipendente da questo passaggio, molto più che, per esempio, dalla distensione dei rapporti con Cuba, per ragionevoli questioni di centralità dell’altra parte ─ Cuba è stata distrutta dal regime socialista e gravita in una sorta di bolla terzomondista, mentre invece l’Iran è un importante e potente (per quanto discutibile) attore geopolitico globale. Obama sul piatto mette la sua eredità storica.

Come spiegava Greg Jaffe sul Washington Post, la maggiora parte dei temi di politica estera che Obama si è trovato davanti gli sono stati imposti (le due guerre in Iraq e Afghanistan, la Siria, lo Yemen, la Somalia, la Libia, lo Stato islamico, la Russia in Ucraina), mentre invece ha perseguito ardentemente di sua volontà la strade per gli accordi con l’Iran. Passaggio emblematico per sottolineare «una delle impostazioni più evidenti della sua politica estera, ovvero l’idea che l’engagement con i suoi nemici possa cambiare il mondo» ─ engagement in questo caso sta per politica duratura di coinvolgimento. Ivo Daalder, ex ambasciatore alla Nato durante l’amministrazione Obama e capo del Chicago Council on Global Affairs, ha detto: «Obama crede che più sono le persone che interagiscono con le società aperte, e più saranno coloro che vorranno fare parte di una società aperta». Ovvio che Obama conosce i rischi, dal mancato rispetto dell’intesa da parte dell’Iran alla possibilità che i nuovi flussi di denaro che arriveranno a Teheran per l’abolizione delle sanzioni, possano finire per finanziare le milizie sciite controllate nella regione, che sono parte fondamentale di un piano geopolitico targato Qassem Soleimani (il capo delle operazioni estere dei Pasdaran) per mantenere presa e controllo su alcuni paesi come la Siria, il Libano, l’Iraq o in Israele con Hamas. Ma per la visione del presidente americano, non c’erano possibilità diverse: l’aumento dell’embargo, o un fantomatico intervento militare, erano soluzioni peggiori. Una volta Ben Rhodes, viceconsigliere del presidente per la sicurezza nazionale, incarnando la linea obamiana disse che continua a esserci «un istintivo ricorso alle soluzioni militari come unico segno della serietà dell’impegno americano». Stavolta Obama ha voluto dimostrare il contrario.

La soluzione raggiunta, anche se non completa, è pure una rivincita personale per Obama: in fase di campagna elettorale (nel 2007), la sua allora sfidante Hillary Clinton disse che voleva intraprendere una politica diplomatica aggressiva con l’Iran: l’opposto dell’engagement obamiano. E proprio con la leva del coinvolgimento, Obama vorrebbe «piegare l’arco della storia dell’umanità», citando le sue parole a proposito delle possibilità che certe volte si presentano davanti alle leadership di Paesi potenti a livello globale come gli Stati Uniti.

È un all-in: se va tutto bene stiamo davanti all’alba di un mondo migliore, se qualcosa va storto questa è un’alba atomica ─ della corsa atomica del Medio Oriente.

@danemblog

 

 

 

 

 

 

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