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Scioperi, perché non servono nuove leggi ma sindacati nuovi

Lo sciopero dei dipendenti di ATM che ha paralizzato Milano lo scorso 28 aprile ha riacceso il dibattito sulla necessità di un intervento normativo che regoli con più chiarezza la materia dell’astensione al lavoro nei servizi pubblici essenziali, come annunciato dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Graziano Delrio, poco meno di dieci giorni prima dei fatti ambrosiani, reagendo al clamoroso caso della sospensione anticipata della Metro di Roma rispetto all’orario annunciato.

E’ comprensibile la paura del governo di non riuscire a garantire la continuità dei servizi pubblici di mobilità durante due eventi di rilevanza mondiale come EXPO e il Giubileo. D’altra parte è proprio questo uno degli scopi degli scioperi in settori così sensibili: dare fastidio. E’ evidente che la finalità sempre più ricercata dagli scioperanti non è il pregiudizio economico o di immagine al datore di lavoro, ma la visibilità mediatica. La quale, purtroppo per gli utenti, è più facilmente ottenibile arrecando danno a centinaia di migliaia di persone piuttosto che alla “sola” impresa contro la quale si sciopera. A ben vedere, infatti, diverse sarebbero le soluzioni nocive per la sola azienda e relativamente neutrali per l’utenza (si pensi allo sciopero virtuale, alla sospensione dei soli controlli dei biglietti, allo sciopero bianco); avrebbero però minore visibilità e non riuscirebbero ad accendere i fari dell’opinione pubblica sui problemi specifici per i quali lo sciopero è indetto.

Quanto è accettabile la strumentalizzazione dei pendolari per la risoluzione di problemi interni a una sola azienda? Come conciliare il diritto di sciopero e quello alla libera circolazione delle persone? E’ una domanda che divide dottrina e politica da tanti anni. Giacciono in Parlamento proposte di legge che provano a “sbrogliare la matassa” (la più recente e nota è l’A.S. 1286 presentato dal sen. Sacconi a febbraio 2014), ma nessuna di queste è riuscita a conquistarsi un posto nell’agenda politica del governo.

L’impressione è che il problema abbia assunto dimensioni e significati ben più che giuridici e legislativi. E’ in gioco un certo modo di fare relazioni industriali, una concezione della stessa azione sindacale. Non si è capaci di sciogliere il nodo normativo perché le parti sociali e la politica non riescono a ripensare le proprie strategie per reagire alla grande trasformazione del lavoro in atto. Una evoluzione (o involuzione, dipende dai punti di vista) che sta interessando tanto il diritto del lavoro quanto le relazioni industriali. Purtroppo né l’uno (Jobs Act) né le altre (si pensi appunto al caso di Milano) hanno per ora dimostrato di sapere “leggere” la transizione in atto, rimanendo impaludate in riti e tecniche figlie di un’altra era.

La sfida dei prossimi anni non è la legge sullo sciopero (che è una conseguenza), ma la capacità, in particolare del sindacato, di leggere la modernità del lavoro. L’evoluzione del nostro diritto del lavoro dipende dall’esito di questo necessario, sebbene difficile, rinnovamento culturale.

@EMassagli

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