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Chi nicchia nella guerra a Isis

L’Isis continua a seminare terrore. Venerdì scorso tre attentati, rispettivamente a Lione, Tunisi e Kuwait City, hanno causato la morte di più di 60 persone gettando il mondo intero in uno stato di paura e smarrimento. Paolo Branca, professore di Lingua e Letteratura araba all’Università Cattolica di Milanouno tra i massimi esperti di Islam in Italia, ha cercato di dare qualche risposta alle domande che, a più di 24 ore dalle stragi, agitano l’Occidente ormai sempre più esposto a una minaccia quanto mai concreta e globale.

Professor Branca, ci sono analogie tra i tre attentati di venerdì scorso?

Sì e non ci si deve sorprendere che possano accadere fenomeni del genere. Non si può essere così ingenui da pensare che si tratti di una casualità. C’è un’ampia area del mondo fortemente destabilizzata e profondamente a disagio che comprende Iraq, Siria, Libia e Yemen che sono in una situazione di travaglio di cui non si vede una fine. Qualche anno fa si pensava di aver toccato il fondo e invece, episodi come quelli di venerdì, dimostrano che sta succedendo sempre di peggio.

Ci sono delle ragioni politiche alla base di questi tre attacchi terroristici?

Ce ne sono moltissime, si accumulano con il passare del tempo e sono anche molto contraddittorie tra loro. Bisogna tener presente che, in molti casi, si tratta di paesi totalmente fuori controllo, devastati da guerre civili, che non hanno più un sistema scolastico o sanitario, non c’è più nulla.

Quali sono queste ragioni politiche?  

A livello interno, nel mondo arabo-islamico c’è una rinnovata tensione tra sunniti e sciiti ma non è certo l’unica. Ci sono una serie di tensioni locali legate alle etnie, alle lingue, eccetera. Se si pensa alla Turchia e al gioco ambiguo che il governo sta facendo perché i curdi – che sono sunniti ma non sono turchi – sono i più efficaci a combattere l’Isis, si capisce che il nemico del mio nemico diventa quasi il mio amico. Insomma, molti nodi mai sciolti stanno venendo al pettine.

Le potenze mondiali in alcuni casi stanno giocando un ruolo ambiguo nella lotta contro l’Isis?

Credo che nessuno la stia davvero combattendo perché le armi di cui dispone l’Isis non vengono fabbricate di certo in zona, ma acquistate un po’ dappertutto. Non solo. Credo che lo Stato Islamico abbia molti sostenitori che, ciascuno per i propri scopi a volte contraddittori, o chiude un occhio o li appoggia apertamente.

Perché, secondo lei?

C’è una forte sfiducia e una forte delegittimazione delle istituzioni che si rivela nelle rinnovate forme di populismo, stati-partito e inasprimento di questi conflitti regionali che sembrano ritornare dal passato.

In che senso?

L’area su cui si muove l’Isis risulta ingovernabile soprattutto a causa della bislacca risistemazione geografica operata dopo la Seconda Guerra Mondiale. Qualche “apprendista stregone” si illude di poter ridisegnare i confini del Medio Oriente secondo nuovi criteri ma creare tanti piccoli Stati a seconda delle etnie e della religione causa solo deportazioni di massa e genocidi, come del resto sta avvenendo in Iraq e in Siria da anni. Le grandi potenze mondiali sono troppo impegnate in altre aree del Pacifico dove nuove entità economiche come la Cina e l’India stanno crescendo.

Quindi?

C’è una confusione tale che è impossibile pensare ci possa essere qualcuno che abbia la lungimiranza e le risorse per intervenire ed esporsi. Si lascia agire chi è sul posto, non conviene a nessuno fare diversamente. Il caos in cui versa la Libia, regione importantissima per l’Occidente, lo dimostra.

Anche la Turchia ha un ruolo ambiguo in questo contesto, come accennava poco fa…

Molto. Del resto, in questa fase sta puntando a riemergere come potenza regionale insieme all’Iran. Ultimamente il presidente Erdogan si è fatto prendere da manie di grandezza e ha abbandonato la politica precedente, molto più neutrale e basata sul diritto economico e sulla crescita della classe media, che faceva ben sperare dopo un lunghissimo periodo di poteri militari. Si pensava al partito di Erdogan quasi come ad una democrazia cristiano-islamica. Invece adesso si dimostra molto più spregiudicato negli affari così come nella politica estera.

Venerdì c’è stata la prima decapitazione dell’Isis in Europa.

L’Isis ha adottato una tecnica comunicativa molto dirompente e delle personalità fragili, se non patologiche, possono cadere in questa trappola incorrendo nell’emulazione. Ciò è preoccupante perché il rischio che qualcuno possa fare delle cose simili dalle nostre parti c’è. E adesso ne abbiamo avuto dimostrazione.

L’Europa sta sottovalutando il pericolo rappresentato dall’Isis?

Alcuni paesi europei hanno un numero tale di musulmani immigrati e un tale appeal, per motivi economici ma non solo, che dovrebbero stare molto più attenti di quanto già non lo siano. Si tratta, perlatro, di paesi che sicuramente hanno fatto degli errori per quel che riguarda le politiche di integrazione che, evidentemente, non hanno raggiunto i risultati sperati.

E l’Italia?

L’Italia, come sappiamo, non è mai stata bersaglio di attentati perché rappresenta la passerella attraverso cui raggiungere il nord Europa, dove ci sono bersagli per loro decisamente più interessanti. Questo, però, non deve farci abbassare la guardia.

L’attentato alla moschea in Kuwait ripropone agli occhi del mondo il conflitto tra sunniti e sciiti. Quali stati parteggiano per questa divisione?

Chi trae vantaggio da questo braccio di ferro sono i paesi arabi del Golfo e l’Iran. Questo conflitto si riverbera anche laddove sunniti e sciiti hanno convissuto e convivono da tempo come in Libano, in Arabia Saudita, in Bahrein e in Kwait. Con questi attacchi si cerca di fomentare il fanatismo religioso per generare conflittualità e odio teologico, alla base del quale ci sono grossi interessi economici, energetici e di alleanze internazionali. L’apertura di Obama verso l’Iran non è vista bene da quelle parti e si fa di tutto per comprometterla.

Alla luce di tutto questo, dobbiamo rassegnarci all’idea che l’Isis non si possa sconfiggere?

Magari non nell’immediato. Al momento ci sono interessi internazionali troppo forti, ma nel lungo periodo si dovrà necessariamente fare qualcosa per evitare la catastrofe. Spero che, con il tempo, si capisca che un’alternativa all’indifferenza debba essere incoraggiata. Anche perché quello che succede dall’altra parte del Mediterraneo ormai ci coinvolge direttamente.

Qual è la soluzione, quindi?

C’è bisogno che questi paesi escano dall’incubo di regimi teocratici e fanatici dal punto di vista religioso. Ma per fare questo deve nascere un vero pluralismo, una vera classe media che al momento non c’è. Si tratta di un processo che non avviene da un giorno a un altro. Quindi bisogna ripensare tutti i fondamentali.

Nel frattempo cosa si può fare?

I musulmani che vivono qui in Occidente dovrebbero dare il loro contributo. Ma, paradossalmente, non mi pare che si faccia molto per coinvolgerli, nel dare loro una formazione, degli strumenti anche per influire sui loro paesi d’origine. Vengono, piuttosto, demonizzati mentre la maggior parte di loro sono persone normali, che hanno ben altro a cui pensare che fare la Guerra Santa. E noi, soprattutto in Italia, da questo punto di vista siamo a zero.

Ma che reali rapporti ci sono tra Al Qaeda e Isis?

Da una parte c’è un’eredità, dall’altra un passaggio di testimone. L’Isis è molto più localizzato, Al Qaeda è una nebulosa. Isis è la nuova Al Qaeda, e non ha più soltanto lo scopo di abbattere dei regimi nell’area o colpire l’Occidente ma creare un vero e proprio Stato Islamico.

Ci riuscirà?

Ovviamente questo non è così credibile e in effetti loro hanno margine di manovra solo dove uno stato effettivamente non c’è, come in Iraq o in Siria quindi vanno a colmare un vuoto. Ma se dovesse riuscire a imporsi in stati come la Somalia o lo Yemen, dovremmo iniziare a preoccuparci seriamente.

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