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Vi spiego l’eclettismo (anti élite) di Matteo Renzi. Parla Giuliano Da Empoli

Renzi, renziani e renzismo. Saranno anche e soprattutto questi i temi della presentazione del libro “La prova del potere” organizzata dalle associazioni AGOL e La Scossa, oggi alle 19.00, al Circolo Canottieri Aniene, a Roma. Il libro è stato scritto da Giuliano Da Empoli, saggista, editorialista del Messaggero, già assessore a Firenze con Matteo Renzi e ora uno dei consiglieri del premier a Palazzo Chigi.

Da Empoli, nel suo libro traccia una rotta per l’Italia di oggi e di domani. Ma qual è la strada da seguire?

Innanzitutto dobbiamo smetterla di scimmiottare gli altri, di copiare modelli che non ci appartengono e di inseguire schemi che non hanno nulla a che vedere con noi. Un modello economico italiano esiste da molti secoli e ne ha parlato una grande storico dell’economia come Fernand Braudel. E’ un modello che mette la cultura – intesa nel suo senso più ampio – al centro dell’economia. Si tratta di non smarrire la nostra identità ma di investirci su.

Pensa che anche per questo si concentrino su Renzi critiche di diversa natura e tra loro anche in contraddizione? C’è che dice che sia filo americano, chi filo russo, negli ultimi tempi filo tedesco…

Mi pare che Renzi abbia molto chiaro il perseguimento della specificità italiana. E’ alla ricerca di una via che sia nostra, sia dal punto di vista delle politiche economiche, sia dal punto di vista delle politiche internazionali. Ciò, inevitabilmente, lo porta a non essere appiattito su un modello o una linea in particolare ma di volta in volta lo colloca insieme agli uni o agli altri, o anche da solo in alcuni casi.

A proposito della nuova generazione ora alla prova del potere, nel libro lei sottolinea come i suoi rappresentanti siano caratterizzati da inattualità e vena sovversiva. In quali aspetti del comportamento di Renzi emergono queste caratteristiche?

A mio avviso l’inattualità sta nel fatto che Renzi sia portatore di una cultura politica di stampo quasi classico. Anzi, rispetto alla fuga dalla politica che ha contraddistinto la Seconda Repubblica (in cui si è sempre andati alla ricerca di altre classi dirigenti), Renzi rappresenta il ritorno alla politica. Dopodiché, però, c’è la componente trasgressiva. Il suo patrimonio di cultura politica non è stato investito in una chiave conservatrice ma in una chiave nuova che ha fatto saltare schemi e tabù. Due elementi, inattualità e trasgressione, che vanno insieme e che caratterizzano non solo Renzi ma tutta la generazione di coloro che oggi hanno tra i 30 e i 40 anni.

Nel suo libro afferma come la rivoluzione generazionale non sia un evento ma un’epoca. In che senso?

Io penso che siamo entrati in un’epoca nuova. Un’epoca scattata prima dell’avvento al potere di Renzi, con le elezioni del 2013 e la dissoluzione, la paralisi completa, il k.o. tecnico del sistema politico della Seconda Repubblica. Ci saranno ovviamente evoluzioni ulteriori ma dubito che si ritorni indietro. Dopo ci sarà qualcos’altro.

A suo modo di vedere – alla luce, ad esempio, delle critiche di Della Valle, dei ripetuti buffetti di De Bortoli e dei rapporti non idilliaci con Confindustria – qual è il rapporto di Renzi con le élite e come incide sul governo?

Il rapporto di Renzi con le élite è sempre stato pessimo. Renzi arriva come un outsider completo, sia rispetto alle élite politiche, sia rispetto all’establishment. In realtà, poi, in alcune fasi alcuni di questi mondi si sono avvicinati o hanno cercato un dialogo per ragioni prevalentemente opportunistiche. Però di fatto la premessa è che comunque – proprio per queste caratteristiche di inattualità e trasgressività – il suo rapporto con l’establishment di tutti i tipi è destinato ad essere sempre molto precario. Anzi, Renzi in qualche caso ha utilizzato il consenso e il seguito che aveva nell’opinione pubblica per bypassarle queste élite.

Tali caratteristiche di Renzi sono state messe in discussione dalla candidatura alle scorse regionali di esponenti politici che non sono certo i prototipi della rottamazione e del riformismo come De Luca in Campania ed Emiliano in Puglia. Non le pare?

E’ molto difficile riuscire a dare coerenza su tutti i fronti all’approccio renziano. Ci sono dozzine e dozzine di fronti aperti – da quelli di Governo a quelli del partito – e a me sembra che in linea generale Renzi sia riuscito a mantenere più o meno le sue caratteristiche su tutti i fronti. Però, ci sono anche fronti sui quali di tanto in tanto per mille ragioni ciò non è avvenuto. Sul versante del partito, a me pare, in effetti, che ci sia stata un po’ la tentazione di considerarlo un fronte secondario rispetto al Governo. Le regionali hanno dimostrato che non è così.

A che punto è la prova del potere dei giovani renziani? Qual è stato il risultato più positivo finora e quali gli aspetti negativi?

Il risultato più positivo secondo me sono i tabù saltati, come nel caso delle politiche del lavoro o dei rapporti con il sindacato. E’ l’effetto più positivo perché apre nuovi spazi e margini di innovazione. L’aspetto più problematico  è quello di cui provo a parlare nel libro. L’Italia è un paese molto vecchio per struttura demografica, storia e immagine nel mondo. Rimane aperto il tema di come si concilia l’elemento dirompente del cambiamento e con ciò che questo Paese è. Diceva Longanesi: l’Italia è un paese di inaugurazioni e non di manutenzioni. Questa è la sfida di Renzi da tutti i punti di vista.

In economia, secondo lei Renzi ha qualche tentazione dirigista? Qualche giorno fa, ad esempio, Andrea Guerra non ha escluso un ingresso di Cassa depositi e prestiti in Telecom…

Renzi è un pragmatico e per questo, a volte, sconcerta un po’. Ma questa è un’altra caratteristica della nostra generazione: noi non abbiamo il manuale d’istruzioni, non abbiamo il libretto rosso dal quale prendere le soluzioni, procediamo caso per caso con quello che funziona. Anche su questi fronti, l’approccio di Renzi è sempre improntato al pragmatismo che in alcuni casi può spingere verso soluzioni più liberali e, in altri, verso scelte più dirigiste. L’unico criterio di valutazione diventa, dunque, “funziona o non funziona”. Ci sono elementi che possono indurre a ottimismo ma su moltissimi fronti è ancora troppo presto per giudicare.

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