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Perché ora occorre rottamare la vecchia università

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Autoreferenziale, vecchia, poco internazionale e sempre più in basso nelle classifiche internazionali, questo è il quadro dell’università italiana. Un quadro molto desolante, lontano dalla prospettiva ottimistica dell’Italia renziana.

Semichiuso il capitolo scuola (ci sono ancora da collocare decine di migliaia di nuovi insegnanti nonché da emanare diverse norme attuative), il governo da settembre dovrà mettere mano alla riforma dell’Accademia, uno dei luoghi rimasti tra i più diffidenti (e fintamente indifferenti) verso il passo andante di Renzi e ancora imperniato di baroni (nonostante la riforma Gelmini) che poco si sentono toccati da quanto avviene fuori dalle mura universitarie.

Ciò sembrerebbe averlo capito anche il presidente del consiglio, tanto da farlo dichiarare che: «Il 2015 è l’anno costituente per gli atenei». Ora c’è da capire cosa sarà toccato e cosa no dal processo di riforma. Ed è da queste scelte che si vedrà se anche questa riforma sarà terreno di scontro all’interno del principale partito di governo.

Dare un ruolo rilevante a imprese e privati, liberare gli atenei dai vincoli del pubblico impiego, sburocratizzare sulla falsariga della riforma della PA, rafforzare i criteri di selezione e valutazione dei docenti, magari valorizzando maggiormente le esperienze internazionali, creare un coordinamento di tutta la ricerca svolta in Italia, incentivare gli atenei a disfarsi delle proprie sedi distaccate, potenziare il diritto allo studio sulla base delle esperienze fiorentine e toscane.

Se questi punti (al centro di elaborazioni e documenti più o meno riservati circolati durante quest’anno) fossero al centro della riforma, non solo si potrebbe assistere ad una approvazione trasversale in Parlamento, ma si avrebbe anche terreno fertile per le deleghe e i decreti attuativi che il Governo e il MIUR dovrebbero attuare, data l’attitudine innovativa presente al ministero di viale Trastevere sia nella compagine politica (con il Ministro e ex rettore Stefania Giannini, i sottosegretari Davide Faraone e Gabriele Toccafondi) che nella parte tecnica (con due under40 a capo della segreteria tecnica e del gabinetto del ministro, Francesco Luccisano e Alessandro Fusacchia).

È invece difficile pensare che un impianto di riforma del genere riceva il placet della minoranza PD, soprattutto se si vanno a toccare le garanzie acquisite dai dipendenti degli atenei oggi inquadrati come pubblici impiegati e se si presenta una continuità sostanziale con la riforma Gelmini sul coinvolgimento dei soggetti privati nella governance e nei programmi universitari.

Renzi, come sulla scuola, potrebbe giocare d’astuzia per mettere in fuorigioco i suoi “colleghi di partito” inserendo nella riforma un piano straordinario del fondo di finanziamento ordinario delle università (ossia la prima fonte economica di approvvigionamento statale degli atenei), un potenziamento delle misure di diritto allo studio provando ad eliminare la larga platea di studenti idonei a ricevere un sussidio ma che non essendo “vincitori” (cioè nella prima parte di graduatoria coperta economicamente) non ricevono alcun contributo per continuare i propri studi e magari potrà cedere qualcosa sulla sua idea espressa al politecnico di Torino lo scorso febbraio di differenziazione degli atenei di serie A da quelli di serie B. Un’affermazione mal digerita non solo dai sindacati che presidiano gli istituti universitari, ma anche da molti all’interno del partito del segretario.

Nel libro della rottamazione manca ancora il capitolo sull’università. Se lo si scriverà nei prossimi mesi, non solo un altro luogo densamente popolato da “gufi” verrà meno, ma si potrà dire, a voce più alta, che il merito conta qualcosa in questo paese.

Virgilio Falco

Presidente Nazionale|StudiCentro
Vice Chairman|European Democrat Students
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