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Gli smemorati del ’68

Sono, a dir poco, smemorati i 244 “giurati” che a San Mauro Pascoli, in Romagna, dopo un acceso dibattito, hanno assolto il 1968, l’anno storico della contestazione, dall’accusa di avere prodotto più violenza che libertà. Essi si sono fatti convincere dall’ex parlamentare Marco Boato del “merito” che andrebbe riconosciuto ai giovani accorsi allora nelle piazze, spesso devastandole, di avere “promosso la conquista di importanti diritti civili”. Pazienza se poi molti fossero destinati a passare dalle scuole occupate alla lotta armata, insanguinando letteralmente il Paese come terroristi.

I giurati contrari alla santificazione del 1968 sono stati soltanto 73. Che debbono essere apparsi, agli occhi degli altri, dei fossili. Ma hanno avuto ed hanno semplicemente il torto di ricordare bene, e di avere magari provato sulla propria pelle quella che l’ex sessantottino Giampiero Mughini ha avuto i buon senso critico di riconoscere come la pericolosa illusione che la politica rivoluzionaria potesse trasformare radicalmente la società.

I 244 smemorati hanno rimosso dalla storia l’unica, vera, autentica rivoluzione tentata in Europa nella primavera del 1968: quella dei comunisti cecoslovacchi – ripeto, comunisti – guidati da Alexander Dubceck contro l’oppressione dei sovietici. Che reagirono occupando militarmente il Paese d’estate e reprimendo nel sangue le istanze di libertà e di autonomia di un popolo intero. Fu un’autentica tragedia, culminata il 16 gennaio del 1969 nella drammatica protesta dello studente universitario Jan Palach, che si bruciò nella piazza praghese di San Venceslao morendo tre giorni dopo.

A favore di quell’autentica rivoluzione gli aspiranti o presunti rivoluzionari italiani, ma anche quelli francesi che li avevano preceduti reclamando “la fantasia al potere”, non spesero una dimostrazione. Ed anche il Pci, pur evitando l’appiattimento del 1956 a Mosca per l’analoga insurrezione ungherese, non andò oltre una formale, assai formale, dissociazione, vergognosamente compensata dal rifiuto di offrire un minimo di ospitalità umana e politica ai protagonisti o attori della primavera cecoslovacca riparati a Roma: a cominciare da Juri Pelikan, poi candidato dai socialisti italiani al Parlamento Europeo.

Ci vuole del coraggio, anche a 47 anni di distanza dal 1968, che non sono pochi ma neppure tanti da poter essere dimenticati, a esaltare quella stagione come una liberazione, anziché bollarla come una vergogna.

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Paolo Cirino Pomicino, l’irriducibile ex ministro andreottiano del Bilancio, che inonda i giornali di lettere e interviste,  si è fatto prendere un po’ troppo la mano, o il piede, nella polemica con il suo conterraneo Giorgio Napolitano, colpevole, secondo lui, di proteggere e favorire le “sfrenate” ambizioni di potere di Matteo Renzi sostenendone da presidente emerito della Repubblica e senatore a vita la riforma del Senato. Che, combinata con la nuova legge elettorale della Camera, approvata definitivamente nello scorso mese di maggio, anche se non applicabile prima dell’estate dell’anno prossimo, farebbe dell’attuale presidente del Consiglio e segretario del Partito Democratico un despota paragonabile a Benito Mussolini.

Oltre a rimproverargli una certa somiglianza fisica con Umberto di Savoia, all’origine della ridicola favola di esserne un figlio illegittimo, Pomicino ha rimproverato a Napolitano una somiglianza politica al presunto nonno, cioè al padre di Umberto, il Re Vittorio Emanuele III. Che consentì a Mussolini di consolidare il proprio potere con la famosa legge elettorale Acerbo, addirittura meno sfacciata, secondo Pomicino, di quella voluta da Renzi per il prossimo rinnovo della Camera, salvo incidenti di percorso. Salvo, cioè, elezioni anticipate da svolgere con quel che rimane della vecchia legge elettorale -il cosiddetto Porcellum- dopo i tagli apportati dalla Corte Costituzionale al premio di maggioranza e alle liste bloccate.

Ma per un simile, improbabilissimo scenario politico Pomicino dovrebbe contare sul suo ex collega di partito Sergio Mattarella: l’unico a disporre al Quirinale del potere di scioglimento anticipato delle Camere in caso di crisi.

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