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Tutte le capriole di Renzi per tagliare la Tasi

Da formidabile comunicatore, Matteo Renzi riesce a mascherare una situazione critica, a ribaltarla e a cavarne financo un messaggio (apparentemente) positivo. Il premier ha fatto leva sulle date, indicando un momento preciso, cioè il 16 dicembre, giorno in cui sarebbe sancita l’abrogazione della tassa sulla prima casa. Per condire il messaggio, il capo del governo ha utilizzato un termine piuttosto forte, a effetto: quel giorno sarà il «funerale» della Tasi. Che messa così pare la notizia dell’anno, visto che l’inquilino di palazzo Chigi avrebbe aggiunto sostanza alle prime dichiarazioni delle scorse settimane. Non solo.

Lo stesso premier ha detto pure di aver superato l’ostacolo delle coperture: «Ci siamo fatti un mazzo così, ma le abbiamo trovate», ha spiegato a Rtl. Ci mancava solo un selfie con la bottiglia di spumante accanto a un bollettino Tasi stracciato e il cerchio (mediatico) era chiuso. La memoria corta degli elettori di solito gioca in favore di chi spara promesse più o meno a casaccio. Non bisogna andare a scovare troppo negli archivi, tuttavia, per scoprire che Renzi non la racconta giusta.

Anzitutto sulla data «X». A metà luglio, quando all’assemblea del Partito democratico, annunciò per la prima volta l’eliminazione del tributo sugli immobili principali indicò la legge di stabilità come veicolo normativo. Legge che viene presentata obbligatoriamente entro il 15 ottobre. Dunque, nei fatti ieri è stato annunciato un rinvio della misura. Rinvio che si spiegherebbe, come rivelano fonti vicine al dossier, con le difficoltà legate alla ricerca dei fondi. Altro che «mazzo»: quei soldi – stiamo parlando di 4-5 miliardi di euro, mica bruscolini – al momento non ci sono. Altrimenti, c’è da scommetterlo, sarebbero state indicate, con dovizia di particolari e slide a ripetizione, tutte le fonti di copertura e l’abolizione del balzello sul mattone sarebbe stata portata subito sul tavolo del consiglio dei ministri.

E invece. Per adesso il taglio della Tasi non c’è. Ciò non toglie che al governo possa riuscire l’impresa, peraltro auspicata soprattutto dai proprietari di casa che negli ultimi quattro anni, come segnala Confedilizia, hanno visto triplicare il carico fiscale. Nel 2014 il gettito di Imu e Tasi è stato di circa 25 miliardi, mentre fino al 2011 il gettito dell’Ici era stato di circa 9 miliardi. Denaro che finisce per lo più nelle casse dei comuni, preoccupati non poco per le mosse – finora solo annunciate – dell’esecuivo. Non a caso, Piero Fassino ha messo le mani avanti. Il sindaco Pd di Torino, pur appoggiando, il governo («è giusto abolire la tassa sulla prima casa perché ci rendiamo conto che nel Paese l’81% delle famiglie vive in proprietà») ha detto chiaramente che «occorre garantire» agli enti locali «in altro modo le risorse che fino a oggi erano garantite dalla Tasi e dall’Imu». I sindaci, che negli ultimi anni – va detto – hanno fatto i conti con drastici tagli, non sono disposti a fare nuovi sacrifici. E quindi pretendono compensazioni. Quattrini che arriveranno ai comuni solo con l’incremento di tasse già esistenti (statali o locali) oppure con la creazione di nuovi tributi. Vorrebbe dire che il taglio della Tasi sarebbe finanziato da altre tasse. A fronte di risparmi, calcolati dalla Cgia di Mestre in 204 euro in media a famiglia (2mila nel caso di ville di proprietà di «ricchi»), i contribuenti verrebbero colpiti con altri prelievi. Oppure potrebbero fare i conti con una riduzione dei servizi locali.

Del resto, l’ipotesi che le coperture finanziarie necessarie a cancellare la Tasi siano individuate da riduzioni della spesa è impraticabile: sia per la difficoltà di rendere concreto qualsiasi piano di spending review sia perché ben 16 miliardi sono già «prenotati» da vecchie clausole di salvaguardia. Con la prossima manovra sui conti pubblici, infatti, il governo è chiamato a evitare un giro di vite sull’Iva (che potrebbe salire fino al 25%) proprio con una cura dimagrante sul bilancio pubblico. Né esistono spazi per agire sul deficit, visto che la partita con Bruxelles per ottenere un margine dello 0,4% è legata a dirottare sugli investimenti in grandi opere pubbliche eventuali fondi extra derivanti dalla flessibilità. Peraltro, nonostante l’ottimismo mostrato anche ieri dal sottosegretario Sandro Gozi, l’ok dell’Unione europea non è affatto scontato.

twitter @DeDominicisF

(articolo tratto dal profilo Facebook dell’autore)

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