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Il triste cabaret fra Marino e Alfano

Fra tutte le serrate annunciate dall’est europeo contro la ripartizione dei migranti fra i tutti i paesi dell’Unione, quelle della Repubblica Ceca e della Slovacchia, unite fino al 1992, sono le più amare. Almeno agli occhi di quanti, al di qua di quella che era ancora la cortina di ferro, quando a Berlino c’era un muro che divideva l’Europa, e non solo la capitale storica della Germania, condivisero nel 1968 la coraggiosa primavera di Praga gestita da Dubcek. Una primavera troncata d’estate nel sangue dall’Unione Sovietica con l’invasione armata.

Tutti ci sentimmo cecoslovacchi quell’anno, nella gioia della primavera e nella reazione indignata alla repressione, anche se, in verità, i governi occidentali fecero poco, o niente, per scongiurare quel tragico epilogo. E la sinistra italiana preferiva identificare il ’68 solo con la falsa rivoluzione della “fantasia al potere”, le occupazioni delle scuole e il 18 politico nelle università.

Vedere ora le due entità di quello Stato tornate idealmente insieme nel nome della intolleranza e dell’egoismo, contro la solidarietà imposta dalle immagini di milioni di disperati che fuggono dalle guerre e dalla miseria, procura una tristezza enorme.

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Quell’”Europa marcia” gridata sulla prima pagina del Manifesto fotografa come meglio non si potrebbe un dramma destinato purtroppo a durare a lungo: vent’anni addirittura, secondo le previsioni del Pentagono.

E’ la fotografia di una moltitudine di disperati che marcia pacificamente verso quella che ritengono la loro salvezza, e di un’Europa che, asserragliandosi nella parte che dovrebbe essere invece quella più sensibile e aperta per le drammatiche esperienze vissute in passato, si merita di essere definita marcia. Mai verbo si è così duramente confuso con l’omonimo aggettivo.

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Il tradizionale pubblico dell’Unità, il giornale storico del Pci fondato da Antonio Gramsci e recentemente tornato in edicola, avrà avuto un sussulto nel vedere un titolo a tutta pagina in inglese: We have a dream. Un titolo che, evocando il celebre discorso antirazzista pronunciato dal pastore protestante Martin Luther King negli Stati Uniti prima di essere ucciso, nel 1968, presuppone un livello culturale e sociale forse inadeguato a tanti vecchi militanti comunisti, che preferirebbero leggere quella bella  frase in un italiano non meno bello ed efficace, e da loro compreso senza bisogno di conoscere l’inglese o di ricorrere ad un dizionario: Noi abbiamo un sogno.

Verrà forse un giorno, quando Renzi avrà finito l’operazione di cambiamento genetico dell’ex Partito Comunista, come gli rimproverano di fare i suoi oppositori interni, che il giornale di Gramsci uscirà con la testata in inglese: Unity al posto di Unità. E sarà forse anche il giorno in cui Renzi parlerà l’inglese meno garibaldamente di adesso, avvicinandosi a quello abbastanza fluente della graziosa moglie Agnese.

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Gli scontri fra il sindaco di Roma Ignazio Marino e il ministro dell’Interno Angelino Alfano, con cui il subacqueo preferisce polemizzare per non prendere di petto il presidente del Consiglio, stanno ormai raggiungendo il livello del cabaret.

L’uno, Marino, accusa l’altro di diffondere fotografie di Roma “datate” al 2014 con la relazione sullo stato delle infiltrazioni della malavita nell’amministrazione capitolina. L’altro ricorda allo smemorato che nel 2014 era sindaco già da un anno.

La platea applaude, per ora. Poi qualcuno dei due attori sarà messo in fuga con il lancio di verdure, oggetti e parolacce. Provate un po’ ad immaginare, o prevedere, chi dei due farà questa fine, calendario alla mano.

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Brutto momento, finalmente, per i magistrati abituati all’uso disinvolto delle loro funzioni. Dopo le parole di Raffaele Cantone, magistrato alla testa della lotta alla corruzione, sono arrivate quelle di Luciano Violante, che ha a lungo indossato la toga prima di mettersi in politica.

L’ex presidente post-comunista della Camera, proseguendo il corso lodevolmente autocritico avviato nel 2009, ha appena denunciato il pericolo di un “totalismo giudiziario”, prodotto dall’esercizio della giurisdizione in funzione antipolitica.

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