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Che cosa vuole adesso l’Europa da Google & co.

La Commissione europea prende di nuovo di mira le web companies, quei colossi nati e sviluppatisi nel mondo di Internet e che, pur contando una base enorme di utenti e macinando profitti stellari, non sono soggetti alle stesse regole delle aziende nate e cresciute nel mondo “fisico”. Per questo l’esecutivo Ue ha avviato una consultazione pubblica sul “comportamento” di Google, Facebook, Amazon e le altre aziende del web per capire se e come vadano regolate. Mentre gli americani gridano al protezionismo, l’Europa chiarisce che sta solo lavorando per creare un Mercato unico digitale ben funzionante.

VERSO UNA REGOLAZIONE DI INTERNET?

La Commissione cerca risposte per una serie di questioni, dalle restrizioni contrattuali che le aziende online a volte impongono ad altre imprese (cercando di favorire la propria piattaforma rispetto ai concorrenti) a quanto attivamente le aziende di Internet debbano impegnarsi nel rimuovere i contenuti illegali dai loro siti e servizi (recentemente Facebook è stata attaccata in Germania per post razzisti messi da suoi utenti e la cancelliera Merkel e il ministro della Giustizia hanno chiesto al social network di essere più decisi nel vigilare. Ora Facebook fa parte di una task force tedesca contro l’hate speech).

In questa fase non è chiaro se l’indagine porterà a una “regolazione di Internet nell’Unione europea”, scrive Reuters, ma “è una nuova dimostrazione che sono soprattutto le aziende dell’hitech americane a essere messe sotto la lente d’ingrandimento in Europa per temi che vanno dalle policy sulla privacy alle tasse”.

IL QUESTIONARIO

La consultazione si basa su un questionario di 46 pagine con cui la Commissione chiede a imprese (soprattutto Pmi) e singoli cittadini se pensano che le piattaforme online siano sufficientemente “trasparenti” nel modo in cui raccolgono e usano i dati. Il questionario chiede anche agli sviluppatori di applicazioni, alle imprese e ai detentori di diritti se le piattaforme online includono nei contratti che propongono le “parity clauses” che li obbligano a offrir loro condizioni pari se non migliori di quelle date ai concorrenti.

La domanda non è casuale. A giugno la Commissione ha aperto un’indagine antitrust sull’attività di vendita di e-book di Amazon per presunto comportamento anticoncorrenziale legato all’utilizzo di questo tipo di clausole nei contratti con gli editori.

L’inchiesta aperta ora sul modo di operare delle web companies non è però un’indagine antitrust, ma conoscitiva (non comporta quindi multe); la Commissione esaminerà anche il funzionamento dei siti di video sharing o degli aggregatori di contenuti (come YouTube di Google) chiedendo ai detentori dei diritti delle opere creative se accade che queste piattaforme si rifiutino di negoziare o stringere accordi di licensing con loro.

Ovviamente le web companies e le aziende hitech americane non gradiscono l’ipotesi di una maggiore regolazione del settore. “Se ci sono problemi devono dirci precisamente quali sono e perché non si possono risolvere all’interno dell’attuale legislazione europea su concorrenza, protezione dei consumatori e privacy”, ha dichiarato James Waterworth, Europe Vice President della Computer and Communications Industry Association, che rappresenta aziende come Google, Amazon e Microsoft.

APPROCCIO EUROPEO

In una nota ufficiale la Commissione spiega che la consultazione su “piattaforme, intermediari online, dati, cloud computing e economia collaborativa” serve a raccogliere informazioni utili con cui la Commissione valuterà la necessità di iniziative specifiche all’interno della Strategia per il mercato unico digitale e per il mercato unico di Beni e servizi.

L’Europa vuole capire il ruolo delle piattaforme online come motori di ricerca, social media, siti di video sharing, app stores, e così via. Verrà studiata anche la responsabilità degli intermediari nel caso di contenuti illegali messi online. Si tratta del primo passo verso un’approfondita analisi che la Commissione svolgerà sul ruolo delle piattaforme e degli intermediari di Internet nella prima metà del 2016 con l’obiettivo ultimo di eliminare ogni barriera al libero movimento di dati nell’Ue e anche sostenere la sua iniziativa European Cloud, si legge nella nota.

Saranno valutate le potenzialità e i possibili problemi posti dall’affermazione dell’economia collaborativa (servizi come Uber, Airbnb, Blablacar e molti altri), per esempio l’assunzione di responsabilità e eventuali restrizioni all’innovazione e alla scelta per i consumatori. Ancora una volta, dando impulso a un “approccio europeo” al settore.

PROTEZIONISMO EUROPEO?

“Le piattaforme online sono parte di una fiorente economia digitale ma restano dubbi sulla loro trasparenza e su come usano i contenuti”, ha dichiarato il vice presidente del Digital Single Market della Commissione Ue, Andrus Ansip. “Le piattaforme di Internet apportano grandi vantaggi all’economia”, ha aggiunto Günther H. Oettinger, commissario alla Digital Economy and Society. “Ma dobbiamo capire meglio quale ruolo hanno e come interagiscono con le altre aziende e con i consumatori”.

Queste prese di posizione sono state lette dalle aziende americane come un tentativo di proteggere le imprese, spesso piccole, dell’Europa contro i colossi a stelle e strisce. Anche il presidente americano Barack Obama non ha esitato a febbraio a parlare di  protezionismo europeo.

Ad aprile il Wall Street Journal è tornato ad accusare l’Europa di voler colpire le aziende americane: l’Europa sarebbe preoccupata dalla minaccia economica rappresentata da colossi come Google e Facebook. Già allora la testata anticipava quella “indagine a tutto campo” sul ruolo delle aziende di Internet che in effetti è cominciata ora. Il WSJ scriveva che il fine dell’Europa era arrivare ad aumentare la regolamentazione.

Il WSJ aveva visionato un documento interno alla Commissione europea in cui si leggeva che alcuni siti web — come motori di ricerca, piattaforme e intermediari online e social network — “si stanno trasformando in super-nodi che possono essere di importanza sistemica” per il resto dell’economia. “Solo una parte molto limitata dell’economia non dipenderà da questi nodi in futuro”. Queste piattaforme (quasi tutte americane) sarebbero gestite con scarsa trasparenza e ciò permette loro di sfruttare il potere di mercato acquisito a spese di altre aziende e dei consumatori, potenzialmente mettendo “l’intera economia europea a rischio”. La soluzione, diceva quel documento riservato, è un nuovo “contesto di supervisione” che governa le relazioni tra le piattaforme Internet e le altre aziende, per esempio vietando pratiche “sleali” come le clausole di price parity e imponendo a chi gestisce le piattaforme di non discriminare tra i propri servizi e quelli di terze parti.

Secondo la testata americana, l’Ue sarebbe pronta a creare un organismo centrale pan-europeo col potere di controllare l’utilizzo che le piattaforme online fanno dei dati e di risolvere le dispute tra i gestori delle piattaforme e le aziende clienti. Le aziende statunitensi hanno commentato rincarando la dose di accuse di “cyber-protezionismo” all’Europa, mentre la Commissione ha respinto le speculazioni sul documento interno bollandole come “paperology”.

OETTINGER NEGLI USA

Nei giorni scorsi il commissario europeo all’economia e alla società digitale Oettinger (che in un recente discorso ha detto che le aziende online europee dipendono da pochi player non-Ue ed è ora di “sostiture i motori di ricerca, i sistemi operativi e social network esistenti“), ha visitato gli Stati Uniti per incontrare le grandi aziende della Silicon Valley. Oettinger ha portato con sé un documento sottoscritto da 51 europarlamentari di diversi schieramenti politici per chiarire e difendere le scelte europee sul digitale e respingere le accuse di protezionismo.

“Siamo sorpresi e preoccupati per le dure dichiarazioni da parte americana sulle proposte legislative e regolamentari europee sull’Agenda digitale, il presidente Obama parla di ‘protezionismo digitale’ e molti nel settore privato ripetono parole simili”, si legge nel documento. “Ammiriamo il dinamismo e il successo della Silicon Valley ma abbiamo fiducia nella capacità dell’Europa di favorire il talento, la creatività e l’abilità imprenditoriale: non abbiamo mai usato l’acronimo ‘Gafa’ e non consideriamo la legislazione un mezzo per gestire la crescita delle imprese”. L’acronico Gafa citato nel documento (Google, Apple, Amazon e Facebook) è utilizzato dai media, soprattutto in Francia, come sinonimo di “imperialismo” culturale e tecnologico.

Già prima di partire per la California, Oettinger sul suo blog aveva replicato alle critiche americane sull’Agenda digitale e sulle azioni dell’antitrust Ue respingendo con decisione l’accusa secondo cui  le politiche in materia hi-tech della Commissione prendano di mira le aziende straniere. “So che molti negli Stati Uniti pensano che lo scopo del Mercato unico digitale sia avvantaggiare esclusivamente le aziende europee”, ha scritto Oettinger. “L’Europa è pronta a tenere conto delle preoccupazioni e delle sollecitazioni degli Usa, ma non prendiamo lezioni e non accettiamo pressioni da nessuno e continueremo a pretendere risposte anche alle domande scomode senza farci impressionare da facili accuse di ‘eccesso di regolamentazione’ “.

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