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FCA, Finmeccanica e Fincantieri. Cosa farà la Uilm

Risolvere i punti di crisi industriale e tutelare ed incrementare gli investimenti rivolti all’industria stessa ed al manifatturiero, in particolare. E’ ciò che ora ci preme. Da sempre lavoriamo, pur con dovute contrapposizioni e reciproche critiche, a stretto contatto con imprese ed esecutivo.

Al Mise, guidato dal ministro Federica Guidi, sono aperti circa 150 tavoli di crisi e la maggior parte riguardano le imprese metalmeccaniche. In questa sede, sindacati, aziende e governo lavorano insieme per trovare soluzioni. A volte ci riescono, come dimostrano i recenti epiloghi delle vertenze Whirlpool ed Electrolux; a volte ancora no, come dimostrano i casi di Termini Imerese e l’ex Iribus in Irpinia.

Fatichiamo, ma cerchiamo di farcela. Rispetto al rapporto con le imprese firmiamo contratti nazionali come quello quadriennale con Fca e siamo impegnati a rinnovare con Federmeccanica quello nazionale riguardante più di un milione e 600mila addetti. Abbiamo in corso confronti con i più grandi gruppi industriali, come quello con Finmeccanica che punta, mantenendo inalterato il primo livello, ad una contrattazione di secondo livello riguardante  tutte le divisioni (operative dal primo gennaio 2016, ndr) del Gruppo.

Ma, siccome gli investimenti sono determinanti, il nostro lavoro non si esaurisce solo nei rapporti coi dicasteri dello Sviluppo economico (con il lavoro ai tavoli di crisi), o del Lavoro (per gli accordi relativi all’utilizzo degli ammortizzatori sociali). Il bilancio di un altro ministero, quello della Difesa, per esempio, è determinante per l’attuazione di contratti in essere utili alla produzione ed all’occupazione nel settore militare e nella cantieristica. Qui ci sono ricadute in gruppi come quello succitato di Finmeccanica ed in quello di Fincantieri. La legge navale fortemente voluta dal ministro Roberta Pinotti consentirà investimenti per 5,4 miliardi di euro con la possibilità di raddoppiare questa cifra. I cantieri navali fortemente penalizzati in questi anni saranno di fatto rilanciati.

I tagli, che ogni anno si annunciano sui bilanci dei singoli dicasteri, in vista della Legge di Stabilità, spesso ci preoccupano. Ciò avviene perché pochi soldi per la manutenzione dei mezzi militari vuol dire poco lavoro per le fabbriche e per gli arsenali; significa, poi, obsolescenza dei macchinari, riduzione della manodopera con ulteriore perdita di competenze costruite, con fatica, in decenni. Insomma, il rischio è quello di una forte sofferenza in termini di riduzione delle commesse produttive e di perdita di posti di lavoro.

Ecco perché, come sindacato, apprezziamo i contenuti del Libro Bianco che, pur non mostrando per scelta cifre specifiche, perlomeno, indicano un nuovo approccio al problema del finanziamento, nel tempo, della Difesa. In questo importante testo è previsto che si riformi il meccanismo della spesa, facendo confluire in un’unica voce gli investimenti rivolti a nuovi mezzi e ai sistemi d’arma, da finanziare con una legge pluriennale. Se andrà in porto questa riforma, fortemente voluta dal ministro Pinotti, si avrà finalmente quella stabilità nel tempo delle risorse da investire che costituisce l’elementare forma di garanzia anche per la prospettiva occupazionale nel settore dell’industria della Difesa.

Fondamentale, in questo senso, è anche la previsione di rivedere concettualmente la spesa per la manutenzione dei mezzi, accorpandola con quella delle operazioni militari, in modo da includere le medesime manutenzioni, in maniera stabile, sotto il cappello della cosiddetta “operatività” delle Forze Armate. Finora non è stato così. E’ bene ricordare che il dicastero della Difesa, tra le altre cose, prevede la dismissione di propri immobili per 220 milioni di euro nell’anno in corso e altri 100 milioni nel biennio 2016-2017. Si tratta di cifre, in questo caso, destinate prevalentemente alla riduzione del debito pubblico.

E poi, ci fa ben sperare proprio quanto letto nella nota di aggiornamento del Def, approvato nel Consiglio dei Ministri del 18 settembre: se riusciremo a sfruttare fino in fondo la clausola per le riforme e a utilizzare in parte, per lo 0,3 per cento del Pil, quella per gli investimenti, si potranno avere maggiori spazi di bilancio utili a migliorare proprio la macchina pubblica degli investimenti. Ciò significa denaro fresco a favore delle infrastrutture fisiche e digitali e questa circostanza può significare l’impegno a sostegno della manifattura come della banda larga.

L’Italia, purtroppo, si è ridimensionata settore della manifattura: se quindici anni fa produceva quasi il 18 per cento del valore aggiunto manifatturiero complessivo, nel 2014 questa percentuale è scesa a circa il 15 per cento. Per essere ancor più precisi, dal 2007 fino all’anno scorso, il sistema manifatturiero nazionale ha subito un calo del 24%. Deve essere chiaro: senza investimenti verso il manifatturiero non crescono l’industria, l’economia, il Paese.

Per noi è evidente che occorre un dialogo aperto con le imprese e con lo stesso governo. Con le prime dobbiamo rinnovare i contratti e riorganizzare i processi di produzione tutelando gli addetti. Con l’esecutivo bisogna ricercare un dialogo che interrompa il muro contro muro perché il sindacato è e rimane un pezzo della democrazia in Italia di cui il Paese non può privarsi. La strada è lavorare insieme, perché il sindacato ama l’Italia.

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