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Che cosa divide Renzi, Orlando e Sabelli

Il giovane ministro della Giustizia Andrea Orlando, 46 anni compiuti a febbraio scorso, ha trovato un mestiere di riserva. Da “dirigente di partito”, la professione dichiarata sulla Navicella, che raccoglie i dati anagrafici dei parlamentari, egli potrebbe aspirare a essere vigile del fuoco, anche se gli sarebbe preclusa la carica di comandante perché fermo negli studi alla pur apprezzabile maturità scientifica. Per il comandante occorre invece la laurea.

Il guardasigilli spezzino è l’unico dei ministri a non avere visto una sfida nell’attacco del presidente dell’associazione nazionale dei magistrati, e di altri esponenti del sindacato delle toghe, al governo per l’attenzione riservata più alla riforma della disciplina delle intercettazioni, cui si procederà per delega, che alla lotta alla mafia. O per la partecipazione a una campagna di “delegittimazione” della magistratura “più complessa” di quella condotta dai governi dell’imputato Silvio Berlusconi.

Astenutosi dal commentare a botta calda il discorso di apertura del congresso dell’associazione delle toghe pronunciato col ghigno dell’accusatore dal presidente Rodolfo Sabelli, il guardasigilli è ricorso poi all’idrante per buttare acqua sulle fiamme attizzate, secondo lui, dal suo collega del Viminale. Lo ha fatto, quindi, dopo avere riflettuto, non d’istinto. E non si sa se dopo essersi consultato al telefono con il lontano presidente del Consiglio Matteo Renzi, impegnato in un viaggio in Sud America.

Per Orlando, accolto poi con comprensibile senso di protezione e di amicizia al congresso barese delle toghe, “non c’è scontro” fra magistrati e governo, e tanto meno fra governo e magistrati. Ci sarebbe solo “una dialettica con posizioni diverse”, essendo obiettivamente difficile, se non forse nel Pd, una dialettica con posizioni uguali. Una dialettica “com’è logico che sia”, nella quale magari può essere sfuggito, secondo Orlando, “qualche accento acuto per tenere insieme la magistratura quando è divisa”. E ora, appunto, forse anche grazie a Renzi, lo è sul modo di difendere un’indipendenza  sempre minacciata o i privilegi castali, che molti magistrati negano contro ogni evidenza.

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Della tendenza delle toghe a conservare privilegi da casta si è appena doluto, con un editoriale sul Corriere della Sera, e con la competenza guadagnatasi fra aule universitarie e Corte Costituzionale, il professore Sabino Cassese.

Fra l’altro, egli ha denunciato il troppo furbesco tentativo del Consiglio Superiore della Magistratura di scaricare sul governo e sul Parlamento l’onere di regolare in modo più stringente, cioè severo, il traffico che avviene da troppo tempo fra magistratura e politica, con toghe che vanno e vengono dai tribunali ed altri uffici giudiziari per fare i parlamentari, i ministri, gli amministratori locali e poi tornare a svolgere le loro funzioni di pubblici ministeri o di giudici, senza minimamente porsi il problema di avere nel frattempo perduto agli occhi dell’opinione pubblica, e dei loro indagati o imputati, la credibilità come uomini o donne al di sopra delle parti, non condizionati dalle loro opinioni o appartenenze partitiche.

Ad una stretta vera alla porta girevole che accompagna l’ingresso e l’uscita dei magistrati dall’albergo della politica avrebbe potuto e potrebbe tuttora provvedere lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura, ha giustamente osservato Cassese, usando quello che sempre rivendicano le toghe con quell’organo istituzionale: l’autogoverno.

Più per le loro divisioni interne che per un senso del pudore, che pure non guasterebbe, i magistrati del Consiglio Superiore hanno preferito passare la palla, come si è detto, al governo e alle Camere. Ma lo hanno fatto indicando pali e paletti dai quali sarà poi facile, con il solito gioco delle interpretazioni, contestare le scelte che in autonomia, disponendone anche loro, almeno sulla carta, governo e Parlamento dovranno o vorranno adottare.

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Più ancora del presidente Sabelli, spalleggiato all’esterno dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato con una lunga intervista al solito Fatto Quotidiano, ha voluto e saputo fare al congresso barese delle toghe il segretario dell’associazione, Maurizio Carbone. Che, pur riconoscendo i danni procurati all’amministrazione della giustizia dal correntismo dei magistrati denunciato di recente dal loro collega Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione, ha contestato a quest’ultimo il diritto e la competenza di lamentarsene.

In verità, Carbone non ha neppure citato Cantone, ma vi ha alluso con tanta chiarezza da procurarsi applausi a scena aperta quando ha detto che l’”individualismo” non è migliore del correntismo, specie quando si subiscono “condizionamenti esterni” peggiori di quelli interni di corrente. I condizionamenti esterni di Cantone derivano evidentemente dal fatto di essere stato nominato al vertice dell’anticorruzione dal governo, e voluto in particolare da Matteo Renzi.

Ma neppure di questo l’Unità di edizione e versione renziana ha voluto occuparsi in prima pagina al termine della seconda giornata del congresso delle toghe. Il direttore deve evidentemente condividere ciò che diceva Kahlil Gibran, pittore, filosofo e scrittore libanese scomparso nel 1931 a New York a soli 47 anni: “L’indifferenza è già metà della morte”.

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