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Cosa succede davvero in Israele

Gli attacchi sono continuati in parti di Gerusalemme nonostante le forze di sicurezza israeliane (IDF) abbiano lanciato una grande operazione nelle zone arabe della città. Anche ieri nella città vecchia c’è stato un nuovo tentativo di accoltellamento, mentre due coloni israeliani hanno ferito due palestinesi.

I FATTI

Il governo israeliano mercoledì ha reso operativa la decisione di bloccare l’accesso ad alcune aree della città santa, inviando circa 300 soldati da affiancare alle forze di polizia: l’incremento sostanziale delle unità di sicurezza dovrebbe poter permettere di fermare gli attacchi che dall’inizio di ottobre hanno provocato la morte di sette israeliani colpiti da attentati e di una trentina di palestinesi (dati del Ministero della Salute palestinese), tra cui gli assalitori, oltre che alcuni bambini e dimostranti, durante vari scontri che hanno coinvolto diverse parti del paese.

Martedì è stato il giorno peggiore, finora: il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth ha scritto che alcuni gruppi palestinesi lo hanno definito “il giorno della rabbia”. Due attentatori palestinesi saliti a bordo di un autobus a Gerusalemme hanno accoltellato e sparato sui viaggiatori, poco distante alcuni ebrei sono stati investiti ad un bus-stop (il guidatore è poi sceso dal veicolo e ha continuato con un coltello l’attacco) e altri due attacchi ci sono stati a nord di Tel Aviv e vicino Haifa. Il bilancio conclusivo è di tre morti e trenta feriti in un solo giorno.

Il governo israeliano ha anche deciso che agli attentatori sarà revocato il diritto di residenza a Gerusalemme, le loro case saranno distrutte, e non saranno celebrati per loro i funerali (è un modo per impedire che le esequie vengano trasformate in una trionfante cerimonia in onore ai martirizzati).

COMMENTI POLITICI E PROPAGANDA

Questa escalation di violenze, iniziata il primo ottobre con un attentato in un’area che collega due insediamenti nel West Bank, quando due uomini appartenenti ad una fazione combattente riconducibile ad al Fatah (il partito che guida l’Autorità Palestinese) hanno ucciso due coniugi davanti ai loro figli, è da alcuni osservatori considerata l’inizio di una nuova Intifada, anche se finora non è stata esplicitamente dichiarata. “Intifada” significa “sussulto”, “rivoluzione”, ed è il termine con cui storicamente sono state definite le due rivolte armate contro Israele giustificate dalle autorità palestinesi (risalenti alla fine degli Ottanta e inizi del Duemila). Ogni volta che un ciclo di violenze si sussegue in Cisgiordania o Israele sui giornali si parla di “nuova Intifada”.

Human Rights Watch ha dichiarato che la decisione del governo israeliano di isolare quelle aree di Gerusalemme può essere rischiosa e aumentare gli scontri, perché viola la libertà di movimento di tutti i palestinesi, mentre invece si dovrebbero adottare «misure mirate ad una specifica preoccupazione», ma non ha specificato quali.

lI segretario di Stato americano John Kerry ha commentato che la politica degli insediamenti portata avanti da Israele, è parte della colpa sulla situazione di tensione del Paese: parole successivamente minimizzate dal portavoce John Kirby in un’intervista al Jerusalem Post. Ma possono rappresentare bene il pensiero dominante dell’Amministrazione Obama (e di un ampia fetta di opinione pubblica mondiale: leggere, a proposito, il commento di Umberto Minopoli su Formiche.net). Su questo “sentimento” si basa Abu Mazen, presidente dell’Autorità Palestinese, che parlando per la prima volta dopo l’innescarsi della nuova ondata di violenza di cui è co-partecipe anche il suo partito, Fatah, ha detto che le azioni di Israele «minacciano di innescare un conflitto religioso», anche se sembra piuttosto che sia proprio l’odio religioso islamista che sta alimentando le vicende attuali. «Stanno uccidendo i nostri figli a sangue freddo» ha aggiunto, riferendosi al caso di un tredicenne colpito da IDF dopo che insieme ad un altro ragazzo, di quindici anni, avevano accoltellato due giovani israeliani che giravano in bici lunedì. Uscita replicata dall’ufficio del primo ministro israeliano, che su Twitter ha fatto sapere che in realtà quel ragazzo è vivo in ospedale, e ha accusato Mazen di «incitamento e bugie». Il gesto dei due adolescenti palestinesi era stato invece elogiato dal portavoce dell’Autorità palestinese Nabil Abu Rudeineh.

IL JIHAD E LE LAME

Ricorda Giulio Meotti sul Foglio, che il jihad palestinese ha un detto evocativo che richiama l’uso dei coltelli, aspetto dominante in questa che è stata giornalisticamente definita “l’Intifada dei coltelli”, proprio per via della tecnica di attacco più comune in questi giorni, l’accoltellamento (c’è un recente video di Hamas, in cui si vedono combattenti affilare le lame mentre incitano alla “Rivoluzione dei coltelli”). “Quando vi sgozzeremo, vi sgozzeremo per Netanya”, recita quel detto, e spiega Meotti che fa riferimento al «confine più stretto e fragile dello stato ebraico, i cinque chilometri che separano Netanya dalla città palestinese di Tulkarem. E’ la gola più sottile e più esposta di Israele». Forse non è casuale la scelta del coltello. Ha una base storica: è la vicenda di Khayabar, quando Maometto nel 627 partecipò allo sgozzamento di ottocento ebrei della tribù di Banu Qurayza, e la circostanza, come raccontato dal Wall Street Journal, è stata ricordata pochi giorni fa durante un sermone di un iman di Gaza, sermone recitato brandendo un coltello, appunto.

DIETRO A QUESTE VIOLENZE C’È ANcHE ALTRO

“Itbach al Yahud”, macellate gli ebrei, è un grido del jihad palestinese: l’accoltellamento è un attacco kamikaze che spinge al martirio, visto che più volte è avvenuto sotto gli occhi delle forze di sicurezza che intervenendo con rapidità sul luogo del reato, spesso reagiscono aprendo il fuoco ed uccidendo l’assalitore. Queste azioni non sono frutto di un programma politico, di un progetto di stato nazionale palestinese, della storica “resistenza popolare”, ma sembrano soltanto guidate dall’odio verso gli ebrei esternato da “lupi solitari” che si fanno portavoce di un sentimento più diffuso (per il momento: poi magari arriverà la vera Intifada, e la rivolta diventerà organizzata).

Il motivo dell’esplosione di violenze ha un espediente pratico: è legato al diffondersi di false voci di modifiche del regolamento di accesso alla città santa di Gerusalemme. Si sono diffuse da fine settembre tra i palestinesi chiacchiere infondate sull’intenzione di Tel Aviv di modificare le vecchie regole sulla gestione del sito, voci smentite più volte dal governo israeliano, ma che tuttavia hanno proliferato e infiammato la popolazione musulmana, soprattutto le ali più radicali. Non è da escludere che dietro ci sia una campagna pensata per polarizzare questo periodo di relativa pace (alcuni osservatori sollevano l’ipotesi di un coinvolgimento iraniano, che provoca lo stato ebraico: ma sono ipotesi per il momento non basate su fatti concreti).

A fomentare situazioni di odio potrebbe essere stata anche la propaganda dell’IS, sia esterna (che arriva a livello globale) sia interna, dove fazioni estremiste inclini al Califfato si stanno diffondendo tra i gruppi armati palestinesi e cercano proseliti (a danno di questi, che stanno cercando di reprimerli). Per l’IS, scatenare una nuova guerra con Israele può essere utile sia in termini pratici (indebolire i gruppi storici del jihad locale) sia di propaganda (proporsi come alternativa).

È quindi, sotto quest’ottica, che per il momento, più che una rivolta palestinese (una “nuova Intifada”), Israele pare stia subendo gli artigli della fascinazione del jihad globale, che è molto fomentato dallo Stato islamico (e che potrebbe essere «eccitato anche dall’accordo sul nucleare iraniano», come sostenuto al Foglio dal direttore del Besa Center Zisser Ifraim Inbar). Anche i boia del Califfo, d’altronde, usavano un coltello per sgozzare gli ostaggi occidentali nei video.

Da qui, il grosso del problema arriverà se i grandi gruppi islamisti palestinesi come Hamas, Fatah, Jihad islamica, decideranno, come sembra stia accadendo, non solo di elogiare e glorificare queste azioni, ma di sposarne i contenuti e organizzarne la gestione in una nuova rivolta armata.

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