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Poletti rottama Marx?

Quella di ieri può definirsi la giornata di Giuliano Poletti. Sempre abbastanza sobrio e defilato, il ministro del Lavoro ha sferrato un uno-due sui rapporti formazione-università-lavoro che ha destato non poche sorprese fra gli osservatori. Anche perché, a ben vedere, sia il cosiddetto Jobs Act sia la cosiddetta “buonascuola” erano sembrate, in primis al sottoscritto, e anzi sono, riforme molto timide e contraddittorie.

La mattina, nel corso di una visita ad un salone a Verona, Poletti ha detto una verità autoevidente anche e soprattutto per chi conosce un po’ il mercato del lavoro non solo italiano: a 28 anni si è oggi molto vecchi per laurearsi, fosse pure col massimo dei voti, viste le dinamiche e le offerte di aziende e operatori di mercato.

L’impressione che si fa agli occhi di chi deve assumere è quella di colui che, casomai con la “paghetta di mammà” assicurata, ha voluto “parcheggiarsi” all’Università e prendersela con calma. Senza cioè dare prova di quello slancio vitale teso all’autoaffermazione che è la molla della realizzazione individuale in una società liberale.

Più in generale, si può dire che è una concezione statalista, oggi non più sostenibile nemmeno economicamente, quella che suggeriva un tempo di non preoccuparsi di bruciare le tappe. In questa concezione, lo Stato, da un lato, fungeva da ente certificatore dell’onnipotenza del “pezzo di carta”, dall’altro, assicurava comunque una integrazione nei propri ranghi anche dei ritardatari.

Oggi, vivaddio, più che il “pezzo di carta” contano sul mercato del lavoro le competenze specifiche e il profilo individuale di ogni candidato. Logica vorrebbe, per riprendere una vecchia battaglia liberale tanto cara a Luigi Einaudi, che se ne traesse la conseguenza, essa sì rivoluzionaria, dell’abolizione del valore legale del titolo di studio.

Niente male poi nemmeno l’intervento pomeridiano di Poletti nel corso di un convegno tenutosi a Roma presso l’Università LUISS. In questa occasione il ministro, affermando che il salario non deve avere a parametro la quantità ma la qualità delle prestazioni lavorative, ha in un sol colpo sconfessato la teoria marxiana del valore-lavoro e la base ideologica che tiene in vita i sindacati nazionali.

Non stupisce perciò la reazione indignata di Susanna Camusso e Maurizio Landini, che però, vedendo minacciato il proprio potere di mediazione, non hanno saputo far di meglio che richiamarsi ai vetusti strumenti della contrattazione nazionale e di una presunta “dignità” di ogni lavoratore da rispettare. A prescindere, come direbbe Totò.

Poletti e un governo Renzi rinsaviti e aedi di una “rivoluzione liberale”? Ad esser sinceri, non lo credo affatto. I motivi per rimanere fortemente scettici restano tutti. E, d’altronde, già in serata sono arrivate le prime precisazioni e ritrattazioni.

Resta però il fatto che, nel suo “venerdì di follia”, cioè fuori le righe, il ministro del Lavoro ha lasciato intravedere, seppur per un attimo, quale sarebbe la via corretta da percorrere se si inseguisse il bene degli italiani e non quel consenso di corto raggio a cui purtroppo si riduce oggi l’azione dei politici

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