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C’era una bomba sul volo precipitato sul Sinai? Sembra di sì

«Abbiamo scoperto un modo per aggirare la sicurezza dell’aeroporto internazionale di Sharm el Sheikh e volendo scegliere di colpire un aereo appartenente a una delle nazioni che fanno parte della coalizione occidentale a guida americana contro lo Stato islamico, la scelta è finita su un volo russo», sono queste le parole ─ da prendere con cautela e intrise di propaganda ─ con cui la rivista dello Stato islamico, Dabiq, spiega nel dodicesimo numero, uscito online mercoledì, l’attentato compiuto contro il volo KGL9268. L’Airbus A321 della compagnia russa Metrojet, è precipitato il 31 ottobre sul Sinai, e ufficialmente ancora non sono state diffuse le cause del disastro che ha portato alla morte di tutti i passeggeri, 224 persone.

RIVENDICAZIONI E PRIME RICOSTRUZIONI

Da subito l’Isis aveva rivendicato la paternità dell’attentato, attraverso le parole del waly locale, Abu Osama al Masri, in un monologo a video, poi con un comunicato scritto e un audio messaggio. Le autorità internazionali che si occupano delle indagini si sono divise su due filoni: da un lato inglesi e americani, che basandosi su comunicazioni intercettate da satelliti israeliani, hanno subito detto di essere in grado di affermare che si trattava di un attentato; dall’altro russi ed egiziani, che per ovvie ragioni di immagine, tendevano a minimizzare, parlando di un incidente e chiedendo tempo per approfondire le indagini.

Da mercoledì gli egiziani sono rimasti soli sulla propria posizione, visto che anche l’FSB, cioè l’intelligence federale russa che ha sostituito il mitologico KGB, sostiene che all’interno dell’aereo c’era una bomba.

L’ORDIGNO

Le ricostruzioni dei servizi russi, secondo quanto riportato dal giornale Kommersant, si discostano un po’ da quello pubblicizzato da Dabiq, però. Per Mosca si è trattato di esplosivo, forse estratto da proiettili di artiglieria attivato da un timer, forse plastico o TNT, usato per comporre un ordigno di circa 1,5 kilogrammi. Per l’intelligence russa “l’epicentro” dell’esplosione non è stato il vano bagagli, come si pensava all’inizio (americani e inglesi sospettavano che una bomba potesse essere stata introdotta in stiva, forse all’interno dei blocchi vivande). La detonazione sarebbe avvenuta vicino alla coda, all’interno della cabina, ad un’altezza compresa tra il sedile e il finestrino dell’aereo: dettagli che fanno pensare che qualcuno teneva con sé la bomba, oppure è stata nascosta da qualcuno che è entrato nel velivolo prima del decollo, per esempio gli addetti alle pulizie o alle ispezioni dello scalo.

La lattina esplosiva. In una delle immagini che accompagnano l’articolo della rivista dell’IS, è fotografato un ordigno che il Califfato dichiara di aver usato per distruggere l’aereo. Si tratta di una lattina di una bibita collegata ad un detonatore a innesco elettronico. Può bastare questo genere di IED per far precipitare un aereo? Esperti aeronautici spiegano che una cabina di un qualsiasi liner è artificialmente stabilizzata a 6000 piedi circa (il volo Metrojet viaggiava più in alto). In queste situazioni la differenza tra tra la pressione esterna e quella interna genera un gioco di equilibri che può far da cassa di risonanza per qualsiasi “buco”: buchi fisici, come quelli prodotti da una possibile esplosione a bordo, che creano lo scompenso di pressione che fa “spaccare” l’aereo. Per capirci, gli agenti del Mossad che operano all’interno degli aerei della compagnia israeliana El Al, hanno proiettili di gomma per evitare di forare la cabina sparando colpi in eventuali casi di emergenza.

UN’IPOTESI

Se la bomba è stata introdotta a bordo, non si può escludere certamente l’ipotesi che un qualche passeggero l’abbia tenuta addosso a sé. Nel caso potrebbe essere stato direttamente un jihadista di cittadinanza russa, confuso tra gli altri passeggeri turisti, magari entrato in contatto con altri componenti della Provincia del Sinai che gli/le hanno fornito l’ordigno esplosivo. In effetti, ammesso che quello propagandato da Dabiq corrisponda alla realtà, la Gold Schweppes al gusto ananas è una bibita che viene venduta quasi esclusivamente nei paesi mediorientali.

Una rete transcontinentale. In un’altra foto su Dabiq, c’è l’immagine di un passaporto russo, che ─ sempre secondo la rivista ─ apparterrebbe ad uno dei passeggeri: falso o autentico, si tratta dell’attentatore? Se così fosse, significherebbe che la Wilayah egiziana dello Stato islamico è stata in grado di mettersi in contatto con un jihadista russo, mentre si coordinava con i centri di potere siro-iracheni. Un’operazione che ha potenzialmente coinvolto i prolungamenti del Califfato attraverso tre continenti, a testimonianza che le varie “province” dell’IS sparse per il mondo non sono solo delle semplici affiliazioni ma sono braccia centralizzate di uno stesso network.

Il collegamento con la storia. Le “lattine-bomba” non sono una novità. Erano già state usate dai terroristi islamici in una serie di attentati dinamitardi ai danni di alcune abitazioni di Mosca e Volgodonsk nel 1999: gli attentatori le usarono per innescare l’esplosione di una serie di edifici residenziali in cui, in totale, rimasero uccise 293 persone. Le autorità, guidate dall’allora presidente Boris Yeltsin, accusarono degli attacchi del ’99 i separatisti ceceni. Furono rivendicati successivamente dall’Esercito per la Liberazione del Daghestan (un gruppo allora sconosciuto, e per questo la vicenda si legò anche a letture controverse su una macchinazione operata dai servizi segreti per spingere una rappresaglia russa in Cecenia, un false flag).

Resta che, indipendentemente dal fatto che sia stata usata una “lattina-esplosiva”o un ordigno diverso, è il valore evocativo e simbolico che sta dietro al messaggio diffuso da Dabiq ad occupare la scena principale: sono stati i Russi a colpire, annuncia la rivista nascondendosi dietro ai dettagli. Le agenzie raccontato che il portavoce del presidente Putin Dmitri Peskov in conferenza stampa è stato subito sollecitato dai giornalisti presenti, che hanno chiesto al diplomatico se avesse visto le foto della lattina: Peskov ha risposto freddo e preoccupato «le ho viste» senza commentare oltre (ma i presenti raccontano che dal suo volto si capiva che aveva notato il collegamento con i fatti del ’99).

Uno network simile a quello di Parigi. In quello che potrebbe essere successo nel Sinai, si rinviene uno schema simile a quello degli attentati di Parigi, con la figura di Abdelhamid Abaaoud che aveva una posizione abbastanza centrale nell’Isis, dove ricopriva il ruolo di comandante militare a Deir Ezzor (“Emiro della guerra”). Da lì, seguendo probabilmente una pianificazione studiata in Siria, ha diretto l’operazione dei compagni mujahideen nella capitale francese, facendo da link tra l’Europa e il Califfato. Contatti locali che seguono, attraverso comunicazioni organizzate e gestite in loco, le direttive centralizzate di Raqqa.

La potenza simbolica. Questi gesti, hanno anche un altro potente potere simbolico-evocativo, perché dimostrano ai proseliti che la “potenza” dello Stato islamico travalica i canonici confini continentali e si espande senza limiti di continuità territoriale. Aspetto tra i presupposti fondativi del Califfato: si ricorderanno i bulldozer che, nei giorni in cui il Califfo prendeva Mosul, distruggevano le tracce fisiche dei confini di Sikes&Picot tra Siria e Iraq.

 

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