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Il nemico non è solo il jihadismo

Con una guerra mondiale “a pezzi” in corso, lo stato di emergenza in Francia e Belgio e l’Italia in allerta 2, questo dovrebbe essere il momento della lucidità. Ma l’attuale dibattito sulla minaccia jihadista lascia intendere il contrario: la confusione regna sovrana. Anziché agevolarne la comprensione, molte analisi della sfida in cui siamo coinvolti impediscono di coglierne la reale natura. Del tutto fuorviante appare ad esempio l’affermazione di un ricercatore belga intervistato dal Washington Post, a detta del quale “questi mostri li abbiamo creati noi. Ogni società ha i radicali che si merita”.

Tristemente rappresentativo del sonno della ragione di certa intellighènzia, tale argomentazione evidenzia un antico vizietto: attribuire all’Occidente l’origine del male che lo colpisce. Se i jihadisti seminano morte e terrore nel mondo, la colpa sarebbe dell’arroganza degli Stati Uniti e dell’Europa, del loro grilletto facile e delle sofferenze dei popoli oppressi. Il giochetto sarebbe risibile se non lo ritrovassimo anche presso parte dell’opinione pubblica islamica, tra coloro cioè cui è stato chiesto di unirsi per esprimere un corale “no” alla violenza generata nel loro seno. Le manifestazioni in cui i musulmani di casa nostra hanno esibito sdegno e condanna per la violenza jihadista non possono che rallegrarci. Ma il tentativo di alcuni di stabilire un nesso di causa-effetto tra la politica estera delle potenze occidentali e la barbarie dello Stato islamico o del qaedismo rischia di depotenziare il messaggio che si intendeva lanciare.

La risposta da dare a chi destabilizza il pianeta non può essere ambigua. La chiarezza che è richiesta dal difficile momento che stiamo vivendo la troviamo invece in un cartellone esibito nel corteo di Roma: il jihadismo è “un cancro del corpo islamico”. È, questa, l’unica diagnosi che può aiutarci a disinnescare la bomba deflagrata nell’islam, e quindi anche nelle società che ospitano robuste minoranze musulmane. La sfida posta dai kalashnikov e dai kamikaze di Parigi rimanda all’esistenza, all’interno del mondo islamico, di movimenti che pretendono di stabilire un’ortodossia basata sull’interpretazione letterale dei testi sacri. Lo aveva affermato anche il defunto direttore di Charlie Hebdo, Stéphane Charbonnier: “il problema”, ha scritto Charbonnier nel suo libro postumo, “è il fedele che legge il Corano come le istruzioni per montare uno scaffale Ikea”.

Quando si espelle la ragione dal discorso religioso, ne scaturiscono mostri che opprimono le donne, perseguitano le altre religioni o uccidono in nome di Dio. La matrice di tanta violenza è il fondamentalismo islamico, di cui il ijhadismo rappresenta l’espressione armata. L’auspicio è che, oltre a condannare il secondo, i musulmani italiani prendano le distanze dal primo. Se infatti la convivenza non può che essere compromessa da chi è convinto di partecipare ad una guerra santa, nemmeno il fondamentalismo ne rappresenta il viatico. Se la mattanza di Parigi può servire per fare chiarezza sulle modalità con cui perseguire l’integrazione, le sue centotrenta vittime non saranno perite invano.

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