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Orario di lavoro: bene il Ministro Poletti, male (tranne la Fim Cisl) i sindacati!

C’è molta agitazione intorno al rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro. Come sempre accade, un dibattito su uno specifico tema apre in realtà a questioni ben più ampie e forse più importanti in quanto riferito ad un “intero sistema”. Ed in effetti è ciò che sta accadendo.

Agli attenti commentatori delle varie disposizioni normative emanate sotto l’egida del “Jobs Act” non era sfuggito un dato sconcertante: il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato assurto (ammesso che non lo fosse già) a tipologia eletta – quasi unica – di rapporto di lavoro, non è stato in alcun modo modificato nei suoi elementi costitutivi (tranne una mediocre riformina afferente le mansioni).

La decantata “convenienza” del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato si è sostanziata nella previsione della “decontribuzione” inserita nella Legge di Stabilità (sic!).  Ecco che in questi giorni il Ministro del Lavoro si ricorda che il contratto non è solo un fatto economico, bensì e soprattutto un fatto gestionale che può avere importanti riflessi anche economici.

Pensando di aver archiviato la questione delle “mansioni” – ma la giurisprudenza ci ha già avvertiti che abbiamo fatto i conti senza l’Oste – oggi ci si accorge che l’”orario di lavoro” forse è tema centrale nel mutato assetto organizzativo delle imprese; ci si è accorti che l’orario di lavoro forse non è più né gestibile né misurabile come una volta; ci si è accorti che vi sono spazi infiniti di regolazione diversa offerti dalla tecnologia e dalle diverse prestazioni alle quali sono chiamati i lavoratori. Il Ministro Poletti ha ben fatto a sollecitare la discussione intorno a questo tema, non credo invece che le parti sociali sapranno cogliere l’occasione di essere protagoniste nella modernizzazione dell’Istituto.

Dico questo perché a me pare che ancora una volta si stia spostando il centro di interesse e di dibattito delle parti sociali su temi che il mondo ha già smarrito da tempo; non solo. Il mondo ha già creato una competizione sul mercato del lavoro che l’Italia pur facendo uno straordinario sforzo normativo non riuscirà mai a fronteggiare con ogni conseguente aggravio in ordine alle criticità che dobbiamo affrontare: competitività e occupazione.

Mentre è pacificamente riconosciuta nel mondo la rilevanza della cosiddetta “sharing economy” noi siamo ancora a discutere sul ruolo che deve essere assegnato al  CCNL  e alla contrattazione di secondo livello. La “sharing economy” non è il “diavolo, bensì un mercato maturo che da anni occupa i Paesi producendo ricchezza ed, ovviamente, posti di lavoro.

I dati sono dirimenti. In USA negli ultimi 5 anni sono da attribuire a questo mercato 3 milioni di posti di lavoro, pari al 20% dell’intera forza lavoro e al 38% dei “nuovi posti di lavoro”! Vedete, quando si affrontano i dibattiti di occupazione i dati devono essere analizzati specificamente e non solo in modo generico ed astratto. Quando riempiamo di “inchieste” le pagine con i dati provenienti da altri Paesi dobbiamo chiederci anche quali sono i meccanismi che consentono alle politiche economiche di  partorire soluzioni e porre rimedio a piaghe sociali.

Questi milioni di lavoratori sono lavoratori “indipendenti” e con questo termine credo di aver detto tutto. Credo che ci sia la presa d’atto che l’economia e congiuntamente il lavoro non è più né pensabile né gestibile come un”unicum”, ma occorre capire le sue reali esigenze di e creare opportunità di sfruttamento delle realtà innovative che sono figlie del cambiamento tecnologico e della scala dei bisogni sociali.

L’”unico contratto”, il “modello nazionale” in questo contesto appaiono non solo fuori “tempo”, ma anche addirittura un limite allo sviluppo economico del Paese ed alla creazione di nuove opportunità occupazionali soprattutto per i giovani! Qui non si tratta di etichettare i “buoni” e i “cattivi”, ma solo di prendere atto che il mondo è cambiato e i Paesi che l’hanno capito e hanno già posto rimedio hanno ottenuto dei risultati: uno, a ripartenza e l’occupazione, l’altro è la creazione di un mercato competitivo che difficilmente può essere fronteggiato da chi è restato legato ad un mondo e mercato che – almeno in parte – non c’è più.

La domanda è: come li affrontiamo? Siamo sicuri che l’attuale occupazione sia terreno ancora gestibile con gli elementi contrattuali esistenti? Siamo convinti che la risposta debba essere ancora centrale e/o centralizzata?

Io personalmente ritengo di no, e credo che sia un giudizio facile e semplice visto il fallimento al quale siamo destinati. Occorre cambiare rotta, totalmente, occorre premiare la capacità, la disponibilità, la buona prestazione, la capacità di adattamento, diversamente condanneremo gli uni e gli altri. Siamo abituati ad una certa “agitazione” sindacale quando il Governo sembra cominciare a mal sopportare l’immobilismo delle parti sociali (vi ricordate il 2011?), il Sindacato è vecchio, è lento, è elefantiaco e poco reattivo. Occorre uno svecchiamento culturale che non significa abbandonare diritti e tutele, ma partorirne di nuovi se tutto ciò che abbiamo intorno è cambiato!

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