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Hijab e potere. Le donne nel nuovo Iran

L’AMBASCIATRICE MARZIEH AFKHAM

Marzieh Afkham fa la sua comparsa sulla scena internazionale nel settembre del 2013 quando, con una mossa che sorprende molti, il Ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif la nomina sua portavoce. È la prima volta nella storia della Repubblica Islamica. Diplomatica di carriera, Marzieh Afkahm, classe 1962, diventa la donna più in vista del paese. Sempre avvolta nell’ortodosso chador che lascia scoperto soltanto il viso, la voce timbrata e il suo perfetto inglese batteranno il tempo dei negoziati sul nucleare iraniano. Siamo nell’aprile del 2015. Inaspettatamente, si raggiunge l’accordo che molti non esitano a definire storico. È sempre Marzieh Afkham a spiegare alla stampa mondiale la posizione di Teheran. Di lì a poco, la prima dal 1979, sarà nominata ambasciatrice.

SOTTO LO SCIA’

Solo un’altra donna prima di lei ha rappresentato l’Iran. A Teheran fiorivano le minigonne e regnava ancora lo Scià. Di Mehrangiz Dolatshahi, educata in Germania, un dottorato conseguito ad Heidelberg, resta l’immagine di una bella ragazza a capo e gambe scoperte negli scatti che circolano in rete. Nei suoi tre mandati al Majles (il Parlamento iraniano dell’epoca), l’attivista sociale e politica persiana legò il suo nome alla legge che avrebbe concesso alle donne il diritto al divorzio e alla custodia dei figli. Fu nominata ambasciatrice a Copenhagen nel 1976.

LE DONNE E LA RIVOLUZIONE

Con la rivoluzione del 1979 le cose cambiano, e per le donne comincia un percorso tortuoso, fatto di diritti negati, ma anche di molte contraddizioni.
Innegabilmente, nella Repubblica Islamica, le donne hanno meno diritti degli uomini e raramente accedono a ruoli di potere. Le cose, però, stanno cambiando. Le iraniane, diversamente dalle saudite, possono guidare. Tuttavia, anche la loro libertà di movimento è limitata. In particolare, le donne possono viaggiare all’estero solo con l’autorizzazione di un tutore. La parola di una donna, in tribunale, vale la metà di quella di un uomo. Il diritto ereditario ancora le penalizza.

TRA MODERNITA’ E TRADIZIONE

La società iraniana presenta però ampie contraddizioni. Una popolazione giovane, colta, urbana e sofisticata reclama maggiore libertà e un allentamento dei vincoli religiosi. Le donne, sempre più scolarizzate, fanno sentire la loro voce. Se ai tempi dello Scià, ad esempio, solo un terzo delle persiane sapeva leggere e scrivere, il tasso di alfabetizzazione nella fascia d’età tra i 15 e i 24 anni raggiunge oggi quasi il cento per cento. Mentre le studentesse rappresentano il 60 per cento degli iscritti nelle università del paese, nel 2012 diversi atenei hanno introdotto regolamenti che proibiscono alle donne di iscriversi a determinati corsi. La dialettica tra conservatori e modernisti è ben lungi dall’esaurirsi.
Pur soggette a numerosi vincoli, tuttavia, le donne hanno fatto enormi passi avanti nelle professioni. Un terzo dei medici del paese porta l’hijab. L’insegnamento è ormai quasi solo declinato al femminile: 80 per cento degli insegnanti sono donne. Quel che più conta, poche, le più agguerrite tra le figlie della grande borghesia degli affari – cominciano a pretendere, e a prendersi, una fetta di potere reale.

GIOVANI GUERRIERE

Elham Hassanzadeh, 31 anni, è una di queste. Con un dottorato di ricerca conquistato in Gran Bretagna, erede di una famiglia di produttori di pistacchi, Elham Hassanzadeh ha scelto un settore tradizionalmente inaccessibile alle donne. Esperta di energia, ha praticamente scritto da sola il testo di riferimento sull’industria del gas naturale iraniana dal 1979. Pubblicato dalla Oxford University Press l’anno scorso, il suo lavoro le ha aperto tutte le porte giuste. Con un portfolio di contatti invidiabile, Elham Hassanzadeh è tornata a Teheran per fondare una sua società di consulenza, la Energy Pioneers. I suoi interlocutori, ovviamente quasi tutti maschi, sono i leader dell’industria mondiale. Si affidano a lei per fare affari con Teheran. In un’intervista a Bloomberg, la giovane donna ricorda di aver letteralmente dovuto abbattere le barriere che le impedivano di irrompere in un’arena dove gli uomini hanno sempre dominato e continueranno a dominare.

LA PROMESSA DI ROUHANI

Al momento di prendere la guida dell’Iran, nel giugno del 2013, il Presidente Hassan Rouhani ha promesso che il suo governo avrebbe riservato maggiori opportunità e diritti alle donne. Tre dei suoi viceministri sono donne. Il cambiamento non dipende solo da Rouhani e la sua azione incontra la spesso vigorosa resistenza dei leader religiosi e dei conservatori. L’Ayatollah Ali Khamenei, l’autorità suprema nel paese, ha recentemente ribadito come l’uguaglianza di genere è “uno dei maggiori errori dell’occidente” anche se, aggiunge, “non è contrario al lavoro femminile purché resti fermo il prioritario ruolo della donna come madre e nelle cure domestiche”.

SIMBOLI E POTERE

In questo quadro contraddittorio, pensando all’Iran, la silhouette scura dell’Ambasciatrice Afkham imbacuccata nel suo chador, interroga le coscienze di quanti in occidente dibattono della compatibilità di simboli della sottomissione femminile – chador, niquab, jihiab – con l’esercizio del potere e la libertà sostanziale delle donne. Innegabilmente, nel caso di Marzieh Afkham, il chador non è espressione di diminutio dello status o del ruolo. Non può essere ignorato, però, come in Iran l’hijab sia imposto dalla legge. Un obbligo la cui mancata osservanza può portare all’arresto. Da tempo, un movimento di donne iraniane combatte contro la legge del 1979 che ha reso obbligatorio il velo.
Sono temi delicati e importanti. In Europa, dove la libertà della persona e l’uguaglianza tra i sessi è – a dire il vero da poco – diritto fondamentale e inviolabile, l’autodeterminazione delle donne non può essere negoziata. Per ciò stesso, il velo è ammissibile, nel rispetto della tutela dell’ordine pubblico, eventualmente solo ed esclusivamente come espressione di una scelta individuale. La Francia, coerentemente con la sua “religion républicaine”, bandisce tutti i simboli religiosi dai luoghi pubblici. In Iran, all’estremo opposto, l’hijiab è imposto a tutte, musulmane e non.

LA DIPLOMAZIA DELL’HIJIAB

A quest’obbligo, volenti o nolenti, devono assoggettarsi anche tutte le rappresentanti di stati esteri in visita ufficiale nel paese. Il contrasto tra i principi occidentali e il protocollo dello stato sciita si è manifestato a volte con risultati involontariamente comici. In occasione di una recente visita nel paese, la Ministra degli Esteri australiana Julie Bishop ha cercato di “camuffare” con un cappello il capo velato, dando prova di un notevole imbarazzo.
Attaccata dalla stampa e da una parte del pubblico del suo paese per l’arrendevolezza dimostrata, Bishop ha spiegato che – malgrado le sue personali opinioni – non avrebbe certo messo in pericolo l’esito della prima visita ufficiale di un governo australiano a Teheran dopo 12 anni.
Anche la pashmina della Presidente del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani, in missione in Iran nei giorni scorsi ha sollevato polemiche. Tuttavia, come ha nei fatti ricordato la Capo della Diplomazia australiana, una pashmina non deve e non può impedire l’apertura di nuovi rapporti tra l’Iran e i paesi occidentali, con reciproci vantaggi per l’economia e per la crescita della democrazia.
Forse un cenno, a porte chiuse, alla questione dei diritti, Debora Serracchiani, come altri dignitari occidentali, avrà avuto modo di farlo.

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