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Fino a quando Draghi potrà gonfiare il salvagente per l’Europa?

No limits”: non ci sono limiti. Mario Draghi è bravo con le parole e questa volta ha estratto dal suo vocabolario un’altra frase-messaggio che vorrebbe essere altrettanto efficace della ormai storica espressione “Whatever it takes” del luglio 2012. I mercati finanziari ancora una volta gli hanno creduto, ma sarà davvero efficace? La crisi dei debiti sovrani era molto seria, però era concentrata e ben definita, adesso invece i giochi sono diversi e spesso contradditori. Vediamoli.

C’è la sfida delle borse e delle banche centrali, che sono come il gatto e il topo. I mercati finanziari hanno ripreso a ballare quando la Federal reserve ha ritoccato al rialzo i tassi d’interesse e sono rimasti delusi a dicembre quando la Bce ha rinviato l’ulteriore fase di allentamento monetario fatta balenare da tempo. Non è un caso che proprio da allora sia cominciata la fase instabile con tendenza al ribasso. Ora Draghi ha promesso di fare a marzo quel che doveva fare prima di Natale. La sua credibilità è tale che le sue parole hanno allentato la pressione, ma basterà? Dipende molto da quel che accadrà sugli altri tavoli verdi.

Sul petrolio la Bce non può influire molto, anche perché la partita ha delle forti componenti geopolitiche. L’eccesso di produzione è anche il risultato del braccio di ferro tra Stati Uniti, Arabia saudita e Russia, mentre la Cina importa meno. Gli americani sono diventati i primi produttori, superando i sauditi i quali, in serie difficoltà per come hanno gestito potere e risorse, vogliono salvare a tutti i costi la loro quota di mercato, quindi pompano greggio anche se questo deprime le quotazioni. I russi, annegati nella sovrapproduzione e impoveriti dal crollo dei prezzi, sono in serie difficoltà, il che non dispiace affatto agli americani. Nel frattempo, quella parte dell’Europa fortemente dipendente da Mosca (soprattutto Germania e Italia), non è più la gallina dalle uova d’oro che in tutti questi anni ha consentito a Putin di consolidare il suo potere e di finanziare la corsa al riarmo (tedeschi e italiani hanno fatto gli apprendisti stregoni, mentre molti stregoni veri si arricchivano). Per il momento gli americani sono i vincitori dell’oil game, ma debbono stare attenti perché prezzi troppo bassi mettono in difficoltà la loro industria anche se negli ultimi anni ha compiuto un balzo di produttività impressionante grazie all’uso sempre migliore delle nuove tecnologie, soprattutto la frattura idraulica delle rocce.

La terza partita è quella cinese e le banche centrali occidentali sono protagoniste importanti attraverso i cambi. Pechino vuole tenere lo yuan abbastanza basso da sostenere le esportazioni mentre si svolge la complessa riconversione dall’accumulazione a tutti i costi a una crescita compatibile. Ma “l’età dell’armonia” è ben lontana e il rallentamento della crescita può provocare seri contraccolpi sociali e politici. Anche per questo gli Stati Uniti stanno attenti a manovrare il dollaro evitando che scoppi una guerra monetaria negativa per tutti.

E qui arriviamo al fossato crescente tra Usa e Ue. La moneta europea dopo anni di dissennata sopravalutazione è scesa a livelli più ragionevoli, ma questo non basta a spingere il vecchio Continente sulla via di una vera ripresa. Dal 2010 ad oggi sono cresciuti solo gli Stati Uniti; meno di altre fasi storiche, ma hanno pur sempre dimezzato i disoccupati giunti ora al 5% della forza lavoro. Anche l’inflazione, più bassa del solito, resta in territorio positivo, contrastando la tendenza strutturale al ribasso per l’effetto dell’Asia e delle nuove tecnologie che riducono i costi di produzione. Non è così nella zona euro dove stagnazione della domanda e deflazione strisciante creano un’atmosfera paludosa. L’abbondante pioggia di denaro liquido ha alimentato la palude, non ha portato i prezzi verso l’obiettivo del due per cento e non ha spinto l’economia. La Bce è stata l’unica ad agire con visione e impatto sistemico, però non può essere lasciata sola. Sono mancati i governi, è mancata la svolta della politica fiscale, sono mancati gli investimenti pubblici e privati. Il piano Juncker tanto propagandato era già una barzelletta e adesso non fa più ridere nessuno.

Nel grande gioco del mercato, dunque, l’Eurolandia risulta perdente perché i suoi governi si sono rivelati confusi, divisi e sostanzialmente imbelli. Fino a quando Mario Draghi potrà gonfiare la sua ciambella di salvataggio?

Stefano Cingolani

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