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L’Iran e l’identità velata

La vicenda della Venere Capitolina e delle altre statue occultate alla vista di Rouhani ha fatto il giro del pianeta ed è un pessimo biglietto da visita per l’Italia. Il nostro governo ambisce a sedersi al tavolo delle grandi potenze, ha designato un proprio rappresentante alla guida della diplomazia dell’Unione Europea, ma per garantirsi una fetta della torta iraniana è disposto a sottomettersi ai diktat di un regime noto per la tendenza a imporre anche ai non credenti il rispetto della propria interpretazione della legge islamica.

Ciò che può essere considerata realpolitik dai nostri operatori economici, ansiosi di partecipare alla corsa all’oro della Repubblica islamica, agli occhi degli italiani è apparsa una scelta gratuita e fuori misura. Sui social network si spreca l’ironia ma anche la rabbia per un atteggiamento accomodante che tradisce debolezza politica e miseria culturale. I nostri cittadini non possono fare a meno di domandarsi se fosse davvero indispensabile celare le vestigia di un’arte che è universalmente associata all’identità del nostro Paese. Trasformare l’ospite in padrone di casa, come si è fatto nella nostra capitale, è sbagliato alla radice perché è indice di una condotta succube verso le convinzioni altrui. Così facendo, si è passato il messaggio erroneo per cui siamo noi che abbiamo qualcosa da nascondere, quando è vero il contrario: sono i Paesi illiberali come l’Iran che devono celare sotto il tappeto una serie infinita di nefandezze tra cui l’oscurantismo elevato a metodo di governo.

In diplomazia, così come in qualsiasi rapporto umano, le relazioni dovrebbero sempre essere simmetriche: ognuno rispetta l’altro per ciò che rappresenta, si tratti di un retaggio culturale, valori politici o una fede religiosa. Il reciproco riconoscimento deve essere alla base dell’instaurarsi di relazioni economiche che possono e devono avvenire all’insegna della neutralità. La convinzione secondo cui la tessitura dei legami commerciali prelude all’approfondirsi dell’amicizia tra i popoli è giusta ma non può fare a meno di ciò che la precede, ossia la mutua considerazione di ciò che ciascuna parte incarna. Velare i simboli della nostra storia millenaria dinanzi al passaggio del dignitario straniero è comportamento che esula dal bon ton. È pura e semplice sottomissione, che è quanto nessun italiano è disposto a concedere di fronte ad una fede religiosa, nemmeno se si tratta di quella che ha nei pressi del Tevere la propria sede.

Il caso scoppiato a Roma ci pone perciò di fronte ad una clamorosa contraddizione. Impegnato in una battaglia permanente per il riequilibrio dei rapporti tra istituzioni laiche e religiose a favore delle prime, intento a sugellare questa primazia con l’affermazione di diritti per le coppie omosessuali, il nostro Paese ha mostrato un cedimento di fronte a un regime che si pone dall’altra parte della barricata. Coerenza avrebbe voluto che, dinanzi al leader di una causa antitetica ai valori che cerchiamo di promuovere, non mostrassimo tanta arrendevolezza. Nel non esibire all’ospite il nostro patrimonio di civiltà immortalato in statue dal valore inestimabile, abbiamo perso l’ennesima opportunità di mostrare al mondo la forza morale di un intero Paese.

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