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Che cosa chiede il Pentagono all’Italia contro Isis

Negli ultimi due giorni la Casa Bianca ha ospitato due incontri politico-militari di alto livello: giovedì s’è riunito il team di consulenti di Barack Obama per la sicurezza nazionale, venerdì è stato il turno del segretario alla Difesa Ashton Carter. La ragione: bisogna fare di più contro lo Stato islamico, serve più impegno, che tradotto significa più fondi, consulenti militari sul campo, formatori militari, commando da affiancare (anche in missione “combat”) a chi combatte i guerriglieri di Abu Bakr al Baghdadi (cioè l’esercito iracheno, i peshmerga, i curdi siriani, e qualche milizia araba “assicurata”).

COINVOLGERE GLI ALLEATI

È tutt’altro che un segreto il fatto che i pianificatori militari americani abbiano inquadrato Mosul e Raqqa come prossimi obiettivi della campagna “anti-Isis” (sono rispettivamente, la capitale irachena e siriana del Califfato, e per alcuni osservatori sembrano un obiettivo ambizioso). Il problema, scrive il New York Times, è che gli Stati Uniti non vorrebbero essere l’unica forza impegnata, ossia stanno chiedendo agli alleati di fare qualcosa di più. Circostanza riscontrata durante un vertice della Coalizione occidentale che combatte il Califfo svoltosi a Parigi la scorsa settimana, in cui Carter ha chiesto più coinvolgimento da parte degli altri membri dell’alleanza militare (“more special forces, more advisors, more airstrikes”).

LA LETTERA ALL’ITALIA

Il NYTimes due giorni fa ha citato una lettera datata 1 dicembre 2015 indirizzata dal Pentagono al ministro della Difesa Roberta Pinotti, in cui si chiama in causa direttamente l’Italia. Sarebbe stata ottenuta dal giornale americano attraverso il sito Wikilao. Nella missiva, finora non commentata dal governo, ma solo dai leader dell’opposizione che l’hanno utilizzata come una leva di critica, sarebbe contenuta una richiesta diretta a Roma: «Apprezziamo profondamente l’impegno dell’Italia nella lotta allo Stato islamico, tuttavia c’è ancora molto lavoro da fare», le parole (e il mood).

Stando a quanto pubblicato dal quotidiano newyorchese, Carter avrebbe detto che gli italiani, che hanno supportato «la formazione delle forze di polizia irachene utilizzate per contenere le città sottratte allo Stato islamico, potrebbero aiutare la coalizione con l’invio di altri istruttori e dell’altro personale militare con compiti di sorveglianza, intelligence e ricognizione». «La coalizione ha anche bisogno di aiuto con squadre di soccorso e sostegno», avrebbe aggiunto Carter.

Dunque si richiede all’Italia di partecipare più attivamente, mettendo a disposizione i pezzi che compongono il nuovo puzzle strategico americano contro lo Stato islamico: personale da tenere dentro le caserme per addestrare su tattiche e uso degli armamenti gli uomini dell’esercito iracheno (quello che l’Italia sta già facendo con circa 750 istruttori dei vari reparti delle Forze armate), advisor militari da mettere tra le seconde linee per consigliare direttamente sul campo le operazioni in corso, e forse qualche squadra di forze speciali da utilizzare nell’ottica di eventuali blitz contro obiettivi primari dell’Isis.

IL CONTESTO

Dichiarazioni che riguardano il procedere della pianificazione militare, indiscrezioni sulla presenza di forze speciali, che da giorni hanno anticipato l’esplicita richiesta del Pentagono uscita l’altro ieri.

Sebbene in passato le richieste del Pentagono siano sempre state accolte a fatica da Barack Obama, pare che stavolta le cose possano cambiare: il presidente vede che la strategia finora adottata contro il Califfato non sta funzionando e i russi si sono inseriti nella partita facendo pian piano recuperare un po’ di terreno al regime siriano e avvantaggiando indirettamente l’Isis, mentre il nuovo round di negoziati diplomatici in corso a Ginevra per arrivare ad una soluzione politica della guerra siriana sembra già fallimentare come i precedenti; dunque Washington è disposta ad aumentare il proprio impegno. Dichiarazioni guerresche spostano l’asse della discussione dall’Iraq alla Siria, passando per la Libia e l’Africa centrale, luoghi dove lo Stato islamico (e altre istanze radicali) stanno espandendosi: fermarli è diventata velocemente una delle legacy che Obama vuol lasciare, da bilanciare con lo scetticismo con cui l’opinione pubblica vede il possibile coinvolgimento dell’America in un altro conflitto in Medio Oriente (i sondaggi hanno dimostrato che gli americani non sono convinti che l’amministrazione Obama abbia un piano per sconfiggere lo Stato Islamico).

L’IMPEGNO ITALIANO

La notizie della lettera uscita due giorni fa, prende particolarmente spazio in Italia dato il contesto attuale. Da giorni si susseguono indicazioni del possibile inizio di un intervento militare sempre contro lo Stato islamico ma in Libia, su cui americani e inglesi riconoscono che il rischioso ruolo guida dovrebbe essere affidato all’Italia. Il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest a una «domanda specifica» durante la conferenza stampa sul vertice con i consiglieri militari di giovedì ha risposto: «Paesi come l’Italia hanno esperienza in quella parte di mondo (la Libia, ndr) e noi attingeremo alle loro capacità per portare avanti i nostri obiettivi». Replica del ministro Pinotti, che ha dichiarato la disponibilità del nostro Paese all’intervento, sebbene al fianco degli alleati. Il richiamo del Pentagono su quello fatto finora, può anche essere letto come un avviso all’Italia a partecipare con impegno in un’eventuale azione futura in Libia?

Formiche.net, a ottobre, aveva rimarcato le principali situazioni militari italiane aperte e su cui Roma si mostrava indecisa e tentennante secondo la visione americana e del Pentagono, al di là dei rapporti cordiali e collaborativi tra i due Paesi. A cominciare proprio dal’Iraq e dall’impegno contro il Califfato. «In concomitanza con la visita nel nostro Paese del segretario alla Difesa Usa, Ashton Carter, Franco Venturini delineava sul Corriere della Sera uno scenario in cui Palazzo Chigi sarebbe stato in procinto di partecipare attivamente ai bombardamenti contro l’Isis in Iraq»; una necessità anche per alleggerire il carico operativo che pesa quasi totalmente sugli Stati Uniti. I raid francesi sono pochi nonostante il contes post 13 novembre e la decisione inglese di aprire anche alla Siria il fronte dei bombardamenti è rilevata dagli analisti come “ininfluente”, vista la bassa intensità di Londra. Australia e Olanda partecipano ma in misura ridotta (i Paesi Bassi avvieranno raid anche in Siria dalla prossima settimana) e gli Stati del Golfo hanno presto rinunciato agli impegni presi un anno fa non partecipando quasi più alle missioni. Da quel momento nel parlamento italiano si è poi aperto un dibattito che alcuni addetti ai lavori considerano poco costruttivo (sebbene per alcuni analisti il dibattito parlamentare non è altro che un tentennamento politico superfluo), sulla possibilità che i nostri Tornado inizino missioni di bombardamento. Ora i nostri velivoli sono fermi nel ruolo di “illuminare” i bersagli, che poi vengono distrutti dalle bombe di altri jet della Coalizione.

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