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La violenza che ha ucciso Giulio Regeni

Quei segni di tortura sul corpo di Giulio Regeni, quella versione oltraggiosa dell’incidente, e quegli arresti improbabili di ieri sera, parlano di una violenza indicibile. Violenza di uno Stato che sapeva di avere, nell’Italia, il suo principale alleato in Europa. Il nostro premier si era attirato numerose critiche per l’abbraccio tributato al nuovo ràis del Cairo, Abd al-Fattah al-Sisi. Fu il primo, Renzi, a ricevere l’uomo asceso al soglio presidenziale dopo aver rovesciato il regime islamista. Una scelta non improvvisata, quella del nostro governo, ma frutto di una sofferta valutazione del quadro della regione più travagliata del pianeta.

Con il colpo di Stato del 3 luglio 2013 e la deposizione del presidente dei Fratelli Musulmani Mohamed Morsi, al-Sisi aveva invertito il corso di una rivoluzione scaturita dal desiderio di libertà ma poi finita nelle mani del fronte fondamentalista. L’exploit della Fratellanza aveva complicato non poco le analisi di chi, come il presidente degli Stati Uniti, aveva scaricato l’ex uomo forte Mubarak per non apparire incoerente agli occhi del mondo. La democrazia americana non poteva che salutare l’avvento del primo governo scaturito da libere elezioni in un Paese che mai le aveva conosciute. La vittoria islamista fu però l’esito sorprendente di una rivoluzione che aveva catturato la simpatia del mondo con la seduzione delle masse scese in piazza armate di telefonino. Il paradosso non poteva essere più appariscente: la primavera araba era esplosa nel nome di ideali quanto mai distanti da quelli nutriti dal movimento che fu più abile a organizzarsi politicamente in vista dell’obiettivo elettorale. A prevalere, nelle urne, fu un partito che ereditava un secolo di lotte per contrastare l’allineamento dell’Egitto con l’Occidente e la sua secolarizzazione. Lotte che si proiettavano ovunque la Fratellanza allungava la sua rete, incluso l’Occidente dove atterravano gli immigrati di fede islamica.

L’Egitto fu anche il teatro dell’evoluzione del pensiero islamista, la cui impossibilità a conquistare il potere per vie pacifiche portò alla svolta jihadista. Fu in Egitto che il sogno di fondare lo stato islamico moderno si trasformò in dottrina estremista sposata alla violenza. Fu qui che ebbe i natali un uomo, Sayyid Qutb, che da ideologo della Fratellanza musulmana si trasformò, dopo l’esecuzione capitale per volontà del regime, in martire della causa jihadista. I suoi scritti ebbero larga circolazione, guidarono la mano dell’assassino del presidente egiziano Sadat e finirono quindi nelle mani di Osama bin Laden, trasformandosi nel manuale di una guerra santa globale che sognava di colpire, oltre ai paesi islamici, anche l’Occidente.

Dal giorno in cui quattro aerei dirottati portarono caos e morte negli Stati Uniti, il jihadismo non ha smesso di assillare le cancellerie occidentali e orientali, unite nella volontà di contrastare una sedizione ammantata di parole d’ordine coraniche. Una sedizione guidata oggi da un egiziano, Ayman al Zawahiri, a capo del network di bin Laden dopo la sua morte nel 2011, e da un iracheno, Abu Bakr al Baghadi, la cui strategia espansionistica si allunga fino in Sinai, dove il califfato ha una sua “provincia” che punzecchia insistentemente l’esercito di al-Sisi, È in questo marasma che si inserisce l’ossessione del governo egiziano, pronto a colpire ogni dissidenza in un Paese che, secondo al-Sisi, non se la può permettere. L’idealismo di Giulio Regeni si è scontrato con la lotta senza quartiere di un regime contro le ombre di una storia avvelenata.

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