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Perché non amo Beppe Grillo

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Non amo Beppe Grillo. Non mi divertiva nemmeno nei panni del comico, così come peraltro non mi diverte il 90% di chi fa il suo mestiere in Italia. Il fatto è che i De Filippo non ci sono più; e che, parafrasando Woody Allen, nemmeno il loro grande papà, Eduardo Scarpetta, si sente molto bene. Dobbiamo insomma accontentarci di Zalone e di quel 90% di guitti nostrani, quelli convinti che per far ridere sia sufficiente che le parole “palazzo”, “pazzo” o “pupazzo” facciano rima con “cazzo”. Il popolo li ama, li vuole così e di conseguenza li amano e li vogliono anche le tv, tanto la pubblica quanto le private, convinte come sono dai numeri di Mamma Audience che i fratelli Vanzina siano in fondo molto più bravi dei fratelli Taviani o degli americani Cohen.

Quanto ad artisti che un tempo ci venivano concessi, come Sir Alec Guinness o Peter Sellers, i cui film – coincidenza? – nessuna emittente trasmette più… Beh, loro rimangono icone di un’ironia “da” noi infinitamente remota, se non “a” noi quasi del tutto estranea: quella intelligente, che fa pensare, che si limita a suscitare il sorriso, mentre la nostra pretende e vuole soltanto la risata grassa, il calembour volgare, il doppio senso greve o la rima scontata della parola “amica”. È una comicità bolsa e immutabile, figlia dell’avanspettacolo, del “facce ride“, del gatto morto gettato sul palco. Ma con le masse funziona. Tanto che perfino la politica – fateci caso, dalle torte in faccia del Bagaglino ai finti Brunivespa di Striscia – ha finito via via per assomigliarle, per “rubarle” il lessico, per copiarne le smorfie, per scimmiottarne perfino i volti. Quando addirittura non l’ha fatta astutamente sua, decretando il salto epocale dalle vecchie Tribune Politiche, quelle della serietà scolpita nei volti in bianco e nero di uomini e donne degni dell’appellativo di leader, al teatrino attuale delle mezze tacche. Con un Gasparri al posto di Pippo Franco o un Verdini che va a rimpiazzare Bombolo. Un inedito “facce ride” dove da ridere non c’è proprio nulla.

Ma scusatemi, divagavo…

Stavo dicendo che non ho mai amato il Grillo comico, ma potrei aggiungere che così come non gli ho mai affidato i miei sorrisi, non gli affiderei nemmeno il mio voto. Eppure almeno su una cosa, devo dirlo, da ieri concordo pienamente con lui. Mi riferisco alla polemica che il comico/politico genovese ha ingaggiato con (e contro) il suo collega Benigni. Premetto di non aver amato mai molto nemmeno lui, salvo nella sua primissima stagione professionale sotto la regia arguta e misurata di Renzo Arbore o accanto a Massimo Troisi nell’estate “del 1492, quasi 1500” del loro irresistibile Non ci resta che piangere. Perché no, perché da dantista innamorato anche la versione benignesca della Commedia mi ha decisamente infastidito.

Ma non è questa la materia del contendere, dato che oggi si parla di coerenza. Certo, lo so bene come essa sia ormai merce rara – ieri, per esempio, ho recuperato online un Salvini del 2012 con il suo fiero e padano proposito: «Basta, basta per sempre: se Berlusconi corre, lo farà senza di noi» – ma devo riconoscere con Grillo che la conversione del “bischeraccio” sulla via di Matteo Renzi, con un peloso endorsement al processo di riforma costituzionale del premier e una ancor più villosa dichiarazione di voto referendario di là da venire, renda legittimo quantomeno meditare. Non mi sembra infatti possibile decantare, senza arrossire, le meraviglie di una riforma che più di un costituzionalista ha definito “peggiorativa” della nostra Carta Fondamentale, dopo aver definito anni fa, con abbondante dose di retorica, la stessa Costituzione come “la più bella del mondo”. Che diamine, è senz’altro una buona Costituzione, ma tra questo e affermare che sia la migliore del mondo ce ne passa, anche se riconosco che in cambio di un ingaggio milionario come quelli di Benigni si possa essere tentati di dirlo.

Eh già. Forse la spiegazione dell’incoerenza denunciata da Grillo potrebbe essere ricercata proprio lì, negli ingaggi. Lo so bene, chi teorizzava che “a pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina” non era proprio un riferimento di rettitudine, ma forse non si sbagliava. Non solo una conversione sulla via di Palazzo Chigi, insomma, quella di Benigni. Potrebbe essersi trattato di qualcosa di più importante: una “folgorazione” su quella del canone elettrico, quello finito in bolletta. Perché una Rai forzosamente più ricca può garantire ingaggi ancora migliori. Funziona così, nel Bel Paese, rassegniamoci: chi ha avuto avrà ancora e chi ha dato continuerà a dare. Tanto, un altro comico per distrarci e “facce ride” lo troveranno senz’altro.

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