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Bagnasco, Cirinnà, il voto segreto e le palesi sciocchezze

Di veramente cardinale, cioè fondamentale, c’è stata solo la risposta arrogante delle massime autorità parlamentari e di governo all'”auspicio” di Angelo Bagnasco che il voto del Senato sulla disciplina delle unioni civili e annesse adozioni, anche da parte delle coppie omosessuali, sia davvero libero, quindi segreto. Si è praticamente detto al presidente della Conferenza Episcopale Italiana di vedersi i fatti suoi, perché a decidere come far votare i senatori è solo il presidente dell’assemblea Pietro Grasso. Come se il primo vescovo d’Italia, teoricamente o paradossalmente primo anche rispetto al vescovo di Roma, che pure è il Papa, avesse non auspicato – ripeto – ma preteso una decisione peraltro reclamata a Palazzo Madama da gruppi interi, o da parti di gruppi importanti.

Ad aggravare la situazione è stato il sostanziale allineamento alle proteste, com’è stato il rifiuto di un commento per il “rispetto” dovuto al Parlamento, da parte addirittura del segretario della Conferenza Episcopale, che pure dovrebbe essere subordinato al presidente. Si tratta dell’ormai solito monsignore Nunzio Galantino. Nunzio, francamente, non ho capito ancora bene di chi, dopo che si è lasciato più volte rappresentare sui giornali come una specie di fiduciario di Papa Francesco in persona, più in sintonia con lui del cardinale Bagnasco. E Galantino di nome e di fatto, inteso come poco galante verso il presidente dei vescovi italiani. E, se permette, anche verso fedeli che si riconoscono più nell’auspicio di Bagnasco che nel suo rifiuto di condividerlo.

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Se non come porporato, Bagnasco avrebbe meritato maggiore rispetto almeno come elettore dai presidenti del Consiglio e delle Camere, insorti contro il suo auspicio con un “rispetto” – per ripetere l’espressione, in particolare, di Matteo Renzi – contraddetto dal tono della reazione. Che ha procurato al capo del governo, una volta tanto, il plauso del Manifesto e di altri giornali a lui abitualmente ostili.  

Non c’era bisogno di rivendicarle ai quattro venti, in polemica diretta col cardinale Bagnasco, per garantirle da rischi inesistenti quelle che il presidente del Senato, con eterno sorriso, ha aulicamente definito “le prerogative istituzionali” sue personali e, più in generale, della Repubblica. Del cui presidente, Sergio Mattarella, sarei curiosissimo di conoscere il parere su questo fuoco acceso in sua assenza dall’Italia, essendo lui in quei giorni o momenti ancora in viaggio ufficiale negli Stati Uniti d’America.

Non foss’altro che per questa circostanza, essendo la seconda carica dello Stato, in attesa di cederla al presidente della Camera con la riforma costituzionale in cantiere quasi ultimato, Grasso avrebbe dovuto avvertire l’inopportunità di esporsi. Ma è solo l’opinione, modestissima, di un vecchio giornalista abituato a scrivere di politica da quando a praticarla erano, fra gli altri, Palmiro Togliatti, Amintore Fanfani, Aldo Moro, Giuseppe Saragat, Pietro Nenni, Giovanni Malagodi, Nilde Iotti, Francesco Cossiga e, senza volere colpire la suscettibilità dei soliti tagliagole, Giulio Andreotti, Arnaldo Forlani e Bettino Craxi. A nessuno dei quali, credo, sarebbe mai venuto in mente di polemizzare come i loro successori col presidente di turno della Conferenza Episcopale. Eppure al Parlamento italiano è accaduto già di legiferare su materie, diciamo così, sensibili per i rapporti con la Chiesa, come il divorzio e l’aborto, approvato – quest’ultimo – durante il sequestro Moro, nonostante il maggiore partito contrario, la Dc, fosse tramortito dalla tragedia del suo presidente.

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Il voto segreto nelle aule parlamentari, una volta difeso strenuamente, e spesso anche abusato, a tutela della libertà degli eletti da quelli che venivano considerati eccessivi condizionamenti dei partiti, sembra ormai diventato una sconcezza, o quasi. E come si abusò nell’usarlo, per esempio quando veniva adoperato anche per fare nelle leggi di bilancio favori a grandi aziende private e pubbliche, si sta ora abusando nel contrastarlo in nome di un malinteso senso della trasparenza. Che in realtà diventa sempre più spesso intimidazione, specie da quando si è passati elettoralmente dai voti di preferenza alle candidature bloccate dai vertici dei partiti, con o senza trucchi. Fra i quali vanno considerati anche i tanto auspicati collegi uninominali, in cui l’elettore ha solo l’alternativa di cambiare partito, o di non votare, quando il suo gli ha stampato sula scheda un nome a lui sgradito.

Nell’aula di Palazzo Madama si arrivò nel 2013 a votare a scrutinio palese persino la decadenza da senatore, per motivi giudiziari, di Silvio Berlusconi. Che curiosamente, anziché sentirsi vendicato, si è opposto e si opporrà nel referendum costituzionale d’autunno alla riforma di Renzi, che declassa il Senato ad un dopolavoro di consiglieri regionali e sindaci.

Berlusconi forse ne avrebbe voluto e vorrebbe la soppressione, ma potrebbe realisticamente accontentarsi, almeno per ora, della fine del Senato come assemblea elettiva ed equivalente alla Camera, se non superiore per il già ricordato ruolo di capo supplente dello Stato assegnato al suo presidente.

 

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