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Ecco tutti i giochetti interni alla Cgil di Camusso

Di Fernando Pineda e Berardo Viola

Doveva essere l’alba di un nuovo giorno, rischia di rivelarsi il momento più buio di una stagione già crepuscolare. La Cgil aveva investito molto sulla sua conferenza organizzativa di settembre, che doveva porre le basi per un rilancio in grande stile della democrazia interna, individuata da tempo – dagli osservatori esterni ma anche da numerosi insider – come uno dei punti più dolenti della costituzione materiale del sindacato.

Non a caso Maurizio Landini, dimostrando un certo fiuto, ne ha fatto un cavallo di battaglia fin dal 2012, spingendosi addirittura a proporre l’introduzione delle primarie tra gli iscritti come metodo di elezione dei vertici. Difficile dire se Landini abbia mai creduto veramente che una proposta del genere potesse essere accolta dalla dirigenza del sindacato di Corso Italia; ma forse gli interessava di più alimentare il flirt con Matteo Renzi, che le vicende successive hanno invece incrinato.

Sta di fatto che la conferenza organizzativa l’ha lasciato con un pugno di mosche in mano. Peccato, perché in un certo senso il piano era ben congegnato. Non avendo i numeri per scalare la Cgil per vie interne – attraverso cioè la consueta trafila congressuale – Landini pensava di costruire la sua piattaforma saldando la spinta “catodica”, costruita a furia di comparsate nei talk show, con quella “dal basso”. Niente male per uno che non lesina mai accuse di populismo agli altri…

Mutatis mutandis, è un po’ quello che ha provato a fare negli Usa il nipote di Jimmy Hoffa, lo storico leader in odor di mafia del sindacato dei camionisti, morto in circostanze mai chiarite. Hoffa jr. ha tentato il take over dell’Afl Cio sfruttando non solo l’ingente mole di finanziamenti a sua disposizione, ma anche gli oliati rapporti per lungo tempo intrattenuti con il network Abc. Però gli è andata buca, proprio come a Landini.

A Corso Italia, quartier generale di Susanna Camusso, ne sanno una più del diavolo. I mandarini della Cgil, quando si tratta di fare quadrato a difesa del fortino, sono imbattibili. Così alla conferenza organizzativa hanno battezzato un sistema che, a prima vista, pare il non plus ultra della democrazia, e in pratica lascia tutto com’è. In sintesi: i segretari generali – dalla confederazione come delle categorie – saranno eletti d’ora in poi non più dal comitato direttivo, ma da un’assemblea formata in larga parte da delegati (o da rappresentanti delle leghe, per i pensionati dello Spi).

Il trucco ovviamente c’è, e si vede pure, infatti Landini lo ha visto e se ne è lamentato per primo. Perché saranno i gruppi dirigenti, che controllano le liste, a scegliere i delegati che andranno a comporre gli organismi: praticamente un Porcellum sindacale. La tanto decantata svolta democratica si è risolta dunque in un rafforzamento della macchina burocratica; al posto dei contenuti, il trionfo degli organigrammi. Del resto capita sempre così quando partecipazione e rinnovamento – magari attraverso la concessione in dosi omeopatiche di quote: ai giovani, agli immigrati, alle donne così come ai delegati – sono offerti graziosamente dall’alto.

L’istinto di conservazione è il riflesso pavloviano delle élite declinanti. Di fronte ai barbari alle porte, si chiama il popolo (quello che resta) a raccolta e si sprangano le porte della città. È ciò che avviene anche alle élite sindacali. Dalla politica, che peraltro chiede sempre agli altri i cambiamenti che non vuole per sé, dalle nuove forme dell’associazionismo, dagli intellettuali, dai vecchi compagni di strada, dalle imprese che guardano ai mercati esteri e alle trasformazioni tecnologiche, dai mutamenti del mercato del lavoro… Dalla realtà, insomma.

Di fronte ad un assedio di queste proporzioni, come hanno reagito finora gli assediati? Per lo più con l’elaborazione di documenti programmatici totalmente innocui che propongono riforme cosmetiche; riforme che vengono dimenticate un minuto dopo la loro approvazione. Forse il momento della rottamazione è venuto anche per le confederazioni. In prima battuta l’operazione, certo non indolore, dovrebbe mettere al centro, oltre alla trasparenza dei bilanci, dei redditi e del tesseramento, anche l’elettività delle Rsu e la democrazia interna. Misure che delineano una sorta di programma minimo di autoriforma. Il minimo sindacale, appunto.

Qualcosa di simile è accaduto anche con il documento sulla contrattazione, il terzo consecutivo a cadere nel vuoto. Il testo in questione sembra rispondere più all’esigenza di cementare l’unita tra Cgil Cisl e Uil, le quali sperano così di trattenere il governo da un’iniziativa legislativa, che a quella di trovare nuove strade per le relazioni industriali.

Assolto a questo compito, poco importa poi che tutto resti com’è. La riprova è il comportamento della Cgil. Che, dopo aver lasciato sul documento le sue impronte, ben più evidenti di quelle degli altri sindacati, lo ha di fatto richiuso nel cassetto per dedicarsi ad altro, e cioè al suo progetto di un nuovo Statuto dei Lavoratori, corredato da tanto di consultazione degli iscritti, al termine della quale tentare – addirittura! – la spallata al governo con un referendum sull’articolo 18 riformato dall’odiato Jobs Act.

Il nuovo Statuto, dicono gli addetti ai lavori, è un’operazione nostalgia che punta a cestinare 20 anni di legislazione sul lavoro, dal pacchetto Treu in poi. Sul piano tecnico-giuridico si certifica solo la sudditanza della Cgil alla deriva movimentista della Fiom. La quale con i diritti dei lavoratori ha ben poco a che vedere. Il disegno, infatti, è squisitamente politico, e prevede che, dopo una rapida quanto trionfale campagna di raccolte firme, la Consulta dia via libera al referendum entro la fine dell’anno. Al che Renzi si vedrebbe costretto, per impedire lo svolgimento di una consultazione dagli effetti potenzialmente per lui nefasti, ad anticipare le elezioni ad inizio 2017. Castelli in aria, beninteso. Ma ci sarebbe il tempo, per Landini, di verificare gli spazi per la presa della Bastiglia – vale a dire la segreteria della Cgil – per poi, in caso negativo, annunciare la discesa in politica.

Il capo della Fiom diverrebbe in tal modo il leader dell’ottavo partitino che si contende l’area politica alla sinistra del Pd, un bacino che prima di ogni elezione pare in procinto di esondare a causa di sondaggi alluvionali e che invece, a urne chiuse, si ritira come uno stagno nella stagione estiva. L’unica cosa certa è che, al termine del suo mandato alla Fiom, non vedremo Landini a bordo campo nei panni dell’allenatore, come ha detto in un’intervista al Fatto Quotidiano. Gli manca la squadra, ecco tutto.

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