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Cosa resta dello spettro comunista secondo Lodovico Festa

Dopo la fine dell’Unione sovietica lo spettro del movimento comunista resta ancora per un po’ tra noi: film, saggi, autobiografie lo raccontano come quasi ancora soggetto vivente. Lo fa con intensità Arundhati Roy che spiega che cosa significava essere comunisti in India nel suo “Dio delle piccole cose” del 1992. Con ironia Philip Roth descrivendo gli intellettuali filocomunisti americani nel suo “I married a comunist” del 1998. Con un suo splendido film Wolfgang Becker in “Good Bye, Lenin!” sui tedeschi dell’Est dopo la caduta del “muro”. Con un grande saggio François Furet e il suo “Le Passé d’une illusion. Essai sur l’idée communiste au XXe siècle” del 1995, combattendo con un storia che continua a mantenere una sua ultima presa. Con un irrigidito scritto Eric J. Hobsbawm, con il suo “The Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914–1991” (1994) che con coraggio ma senza brillantezza rivendica le basi storiche della sua coerenza ideologica.

Con autobiografie assai divaganti e prive di vero spessore analitico, che non di rado si ritraggono dalla verità quasi in memoria dell’antico comandamento “non si deve fare il gioco” del nemico: così il “Volevo la luna” di Pietro Ingrao del 2006 e così il “Dal Pci al socialismo europeo. Un’autobiografia politica” di Giorgio Napolitano del 2008. Meglio in questo senso “La ragazza del secolo scorso” di Rossana Rossanda, che abbandona il comunismo un po’ al suo destino, inseguendo il forse più inconcludente ma meno anacronistico sessantottismo.

A me sembra che qualcosa inizi a cambiare proprio con la crisi del 2008 che segna il nuovo millennio quando si comprende bene che il sistema cinese è tutto tranne che una nuova forma di comunismo, si tratta invece di uno stato fondato sul nazionalismo e sull’esercito che magari maturerà in senso democratico liberale ma che comunque ha abbandonato l’elemento internazionalista cioè il fondamento – per quanto distorto dall’imperialismo grande russo – dell’ideologia leninista-stalinista che fonda il primo stato diretto da comunisti. Quando persino Fidel Castro abbandona ogni velleità, i vietnamiti cercano la protezione americana da Pechino, un quarantenne formatosi nel rapporto con il comunismo italiano come Alexis Tsipras governa come un socialdemocratico appena appena radicale. Quando in Italia quel blocco di potere che Pierluigi Bersani chiama “la Ditta” si sfarina tra il radicalismo giustizialista che conquista tante città e un’alternativa di leader del Pd ex Dc, talvolta persino contrapposti tra loro come avviene con l’asse Enrico LettaRomano Prodi e col giovane rampante Matteo Renzi ma sempre estranei agli ex Pci, l’antico spettro pare proprio evaporare.

E così inizia a manifestarsi un nuovo Zeitgeist (un nuovo spirito della storia) con opere di finzione letteraria (e cinematografica) e saggi che cercano di spiegare (e, spiegando, capire) che cosa è veramente stato il concreto movimento comunista: basta con chi lo elogiava o lo contrastava dal 1917 al 1991, ma basta anche con chi ne teme (o ne spera) un’improvvisa rivitalizzazione. Registrata la fine di una storia, è il momento di capire che cosa è successo e perché. Un piccolo segnale in questo senso mi sembra di cogliere nel film “Il Ponte delle spie” del 2015 di Steven Spielberg, opera che non mi ha particolarmente convinto se non per la spia sovietica Rudolf Abel magnificamente interpretata da Mark Rylance, che con l’ironia del suo “servirebbe?” e il suo elogio degli uomini di convinzione offre una descrizione di un homo sovieticus non solo espressione del “male”. Certo anche John Le Carré, il grande maestro dell’ambiguità, ci aveva dato ritratti di questo tipo: ma più simboli della decadenza dell’Inghilterra di mezzo Novecento che un ritratto del movimento comunista internazionale.

Non so se il mio amico Ugo Finetti concorda sul catalogare la sua più recente opera “Botteghe oscure. Il Pci di Berlinguer & NapolitanoEdizioni Ares 2016, all’interno della tendenza che ho cercato di descrivere. Nel suo delizioso saggio che inizia studiando i primi anni Ottanta (in particolare il 1981) ma poi ha flashback sugli anni Sessanta e Settanta c’è molto anche quel metodo alla Agatha Christie che Ugo spesso richiama: esaminare bene le parole dell’indiziato, farlo parlare ampiamente nella certezza che vi darà le prove della sua colpa.

È infatti implacabile il modo con cui Finetti ricostruisce il pasticcio ideologico messo insieme da Enrico Berlinguer con la famosa intervista a Eugenio Scalfari sulla questione morale, la mancanza di analisi del leader del Pci che si accompagna al disperato occultamento della realtà materiale del partito, dei sui travolgenti debiti, del suo “inevitabile” sistema di autofinanziamento. Una descrizione fondamentalmente affidata dall’autore di “Botteghe oscure” alle parole dei dirigenti comunisti con tanto di “siamo ricorsi a finanziamenti deprecabili ma perché nel ricorrervi il disinteresse personale dei compagni è stato assoluto”, “Dire la verità al Partito? Non possiamo mettere tutte le cifre in piazza”. Parole di Berlinguer. Fino ad Alessandro Natta che in una sua autobiografia scrive: “Hanno permesso che persone integerrime finissero in prigione. Li hanno accusati di colpe che se erano state commesse non era comunque certo per colpa loro”, “Forse tra quella gente che è finita in prigione potrebbe esserci qualcuno che avrebbe potuto prendere ordini da me”.

Naturalmente il saggio di Finetti fa parte di una serie di studi dell’ex dirigente socialista, ben fermo nel suo anticomunismo e in particolare assai polemico con i comportamenti anticraxiani dei dirigenti berlingueriani, però anche rispetto alla sua pur recente opera “Togliatti & Amendola. La lotta politica nel Pci. Dalla Resistenza al terrorismo”, sempre edizioni Ares 2008, nella descrizione della discussione interna al Pci vi è una particolare attenzione nell’analizzare la qualità degli argomenti non solo degli esponenti del partito più aperti al dialogo con il Psi, da Giorgio Napolitano a Paolo Bufalini a Gianni Cervetti, ma anche dei Luciano Barca e degli Alfredo Reichlin.

Forse si può partire anche da questi indizi per arrivare ad arruolare anche il libro finettiano nella nuova tendenza che in sintesi si può definire così: non c’è più un vero problema di trasformare i comunisti, adesso è il momento di cercare di capirli anche per evitare qualcuna di quelle nuove disperate svolte di cui l’umanità è sempre capace.

Non so se faccio una forzatura nel leggere dentro “la tendenza” evocata il libro che ho descritto, il peraltro interessantissimo libro “Botteghe oscure”, sono comunque sicuro che l’autobiografia di un giornalista del Times, David Aaronovitch, “Party animals” editore Jonathan Cape 2015, sulla sua vita in una famiglia composta da un dirigente e da una militante del partito comunista britannico, con la descrizione della sua infanzia, adolescenza e università in un ambiente ossessivamente comunista, risponda pienamente a quello Zeitgeist che ho evocato: così la disperata ironia della descrizione di un “mondo dentro (ma ben separato) il mondo”, così il mito dell’Unione sovietica. Perché una generazione di uomini appassionati – in Gran Bretagna non moltissimi (gli iscritti esplodono solo durante e subito dopo la svolta di unità antinazista della Seconda guerra mondiale) ma con forti influenze sia in alcuni sindacati sia a Cambridge e a Oxford – affida così senza riserve la propria vita a un movimento così radicale, contestato (e certamente per larghi versi contestabile) e destinato a rimanere (in Gran Bretagna) marginale nella vita politica? In Aaronovitch prevale la tenerezza nel giudicare i propri genitori (che pure l’hanno assai sacrificato da bambino alle esigenze del “partito”) e il se stesso che partecipa sino agli anni Ottanta alla vita del movimento, ma senza nascondere il distacco dal “senso” di quella totalizzante esperienza. Un distacco unito all’appassionato invito a “capire”.

A questo punto premettendo il necessario “si parva licet componere magnis” e aggiungendo che mi pare veramente improprio (gli autori dovrebbero essere più riservati sulle proprie opere e non inventarsi un qualche pretesto per propagandarle) consentitemi di presentare un giallo (su Formiche.net lo ha già perfettamente recensito peraltro Gianni Gambarotta) che ho scritto ambientato (naturalmente ogni riferimento definito a fatti e persone è inventato, le atmosfere però non mancano di qualche elemento di realismo) nel Pci milanese della fine anni Settanta “La provvidenza rossaSellerio 2016: anche nel mio caso oltre all’impresa di sperimentarsi con un genere letterario quello noir che da sempre mi ha avvinto, forse agisce “lo spirito del tempo”. In una fase in cui lo scontro tra anticomunismo e comunismo ha perso le sue ragioni di fondo, è forse utile cercare di spiegare che cosa e come è successo (ragionare sul perché richiede comunque anche una specifica riflessione analitica innanzi tutto storica). Magari per spiegarselo a se stesso.

Fatto questo annuncio semipromozionale, una cosa che mi ha molto colpito è come nel mio giallo e nel libro di Aaronovitch (che ho letto dopo che è uscito il mio), vi sia la descrizione di situazioni con alcuni particolari sorprendentemente simili (dall’attenzione agli inni di partito alle bandiere, dai costumi sessuali ai viaggi in Bulgaria, dal rapporto con i dirigenti di partito al tesseramento). Alla fine non si può non constatare come il grande partito italiano e quello minuscolo inglese fossero sistematicamente parte (pur con tutte le loro specificità nazionali) di un movimento con un dna profondamente “internazionale” (a trazione moscovita).

Non è certo una novità ma vederla così similarmente emergere senza eccessi di propaganda comunista o anticomunista in due libri così diversi (un giallo e un’autobiografia), mi ha colpito e ho creduto che valesse la pena segnalarlo.

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