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Maurizio Landini tra confessioni, amnesie e incoerenze

Di Fernando Pineda e Berardo Viola
Dopo aver inanellato una serie di presenze che nemmeno Belen Rodriguez, Maurizio Landini pare aver scoperto il lato oscuro della televisione. Lui, gagliardo campione dei talk show, ora dai talk show – annuncia via intervista a Il Fatto Quotidiano – vuole fuggire. Tranquilli però: il capo della Fiom non intende fare voto di silenzio e penitenza. Tornerà in tv (infatti ieri sera era a Ballarò su Rai 3), ma solo in programmi in grado di valorizzarne la profondità di analisi, certo non in quegli orrendi contenitori pieni di “gente ignorantissima, approssimativa, che parlava di cose di cui non sapeva nulla”, anche se qualche svarione su Jobs Act anche il Landini nazionale lo ha sparato, sempre in tv sia chiaro, Chicco Testa testimone. Insomma, un po’ come certi sindacalisti che scoprono la propria vena di guru finanziari quando si tratta di cavalcare l’Etruriagate nell’illusione di ammaccare l’odiato Renzi. Ma lasciamo andare.
Sarebbe già un’ottima cosa se Landini avesse capito con qualche decennio di ritardo ciò che spiegava Marshall McLuhan, e cioè che “il medium è il messaggio”, e che dunque monopolizzare l’etere non garantisce affatto il travaso nelle menti del contenuto: sotto forma, in questo caso, di progetto politico, la mitica Coalizione Sociale, il Sarchiapone landiniano.
A leggere bene la sua intervista non sembra però che le cose stiano così. Abbiamo già scomodato McLuhan, quindi ci asteniamo dal molestare anche Gadamer, ma se è vero che ogni testo vive in funzione del contesto, non si può fare a meno di notare che le parole di Landini vanno molto al di là del loro significato apparente.
In altri termini: la ritirata non nasce da una riflessione sull’intreccio tra ruolo dei media e ruolo della rappresentanza – come il numero uno della Fiom vorrebbe far credere – ma da questioni contingenti, di pura bottega politica. Una bottega che si chiama Cgil.
Avevamo già scritto che la liquidazione di fatto della Coalizione Sociale preludeva ad un tentativo di scalata del sindacato rosso. Ora, se non proprio le prove, possiamo dire di avere una bella carrellata di indizi.
Il più robusto è la svolta ultraconfederale. Maturata con il documento di Cgil, Cisl e Uil sulla contrattazione, che Landini ha elogiato in pubblico e bocciato in privato, ora viene ribadita in termini addirittura entusiastici. Ai bei tempi il leader della Fiom non esitava a ritagliarsi il ruolo dell’antagonista nella complessa sceneggiatura degli equilibri cigiellini, ora non riserva nemmeno un timido appunto alla Camusso.
Ne ha ben donde, del resto. Per conquistare la roccaforte di Corso d’Italia le spallate non servono, paga molto più la tattica dell’infiltrazione. E non c’è dubbio che di questa tattica Landini si stia rivelando un maestro. Ormai la Cgil ha fatto sua l’agenda della Fiom, giungendo a sposarne perfino i tratti più demagogici, come dimostra la battaglia appena iniziata contro il Jobs Act, il cui atto culminante dovrebbe essere il referendum che ripristina di fatto il vecchio articolo 18.
Non a caso il passaggio politicamente più rilevante della sua intervista a Il Fatto Landini lo riserva proprio a questa iniziativa, specie laddove propone di sottoporre a referendum, oltre al Jobs Act, alcune norme della riforma sulla scuola. Poco importa la scarsa, per non dire nulla, fattibilità del progetto; quel che rileva è il tentativo di captatio benevolentiae nei confronti di una categoria che al momento di tentare la scalata potrebbe rivelarsi decisiva. Così come decisivo sarà l’orientamento dei pensionati dello Spi. Il cui timone sta per passare, con la prossima uscita di Carla Cantone, a Ivan Pedretti, che della Fiom è una vecchia conoscenza.
Nell’ordito di questa trama politica rientra anche, inevitabilmente, il tentativo di ridisegnare un’immagine che presenzialismo televisivo e movimentismo politico hanno dilatato sì, ma pure diluito, fino al punto da renderne indecifrabili i contorni. Dove finisce il sindacalista e dove inizia l’aspirante leader di partito? Così ora Landini corre a rassicurare di essere sempre stato “solo” un sindacalista, ammette addirittura, con aria dolente, di aver preso le distanze da qualche compagno di strada che lo vedeva “solo travestito da politico” (e invece sono loro che hanno preso le distanze da lui); infine garantisce di avere come unico orizzonte la scadenza del suo mandato in Fiom. Che poi è ciò che dicono tutti coloro che preparano il trasloco.
Una nota a margine, per finire. Si apprende che scalare il proprio partito anche con i voti dei non iscritti rappresenta uno sfregio alla democrazia. L’accusa è rivolta ovviamente a Matteo Renzi, reo di aver sfruttato il meccanismo delle primarie (quasi) aperte del Pd per scardinare le resistenze della vecchia Ditta. Il lato comico della faccenda è che l’accusatore è Maurizio Landini. Provate a chiedergli cosa pensa di un accordo o di una piattaforma sindacale sulla quale siano ammessi a votare solo gli iscritti. Inutile, lo sappiamo già: direbbe che è uno sfregio alla democrazia. Quando si dice la coerenza…
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