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Petrolio, ecco tutti i diversi obiettivi di Arabia Saudita, Russia, Iran e Usa

Il ministro del Petrolio saudita Ali al Naimi ha incontrato martedì in Texas i membri delle aziende che si occupano di shale oil. È un meeting molto importante perché mette di fronte il più grosso paese produttore di petrolio al mondo e le ditte che rappresentano una parte di futuro delle produzioni: gli shale oil, che sono reservoir geologici intrappolati all’interno di particolari formazioni, i cosiddetti scisti bituminosi, i quali fino a qualche tempo fa non erano utilizzabili; la loro estrazione prevede l’uso di tecnologie nuove, come il fracking, rese operative da una decina d’anni. Il problema è che lo sfruttamento di queste riserve richiede costi notevolmente superiori all’estrazione classica, e dunque nel contesto economico attuale, con il prezzo del prodotto al barile sceso di oltre il 70 per cento nel giro di un anno, iniziano ad avere margini remunerativi troppo bassi (se non nulli) con prezzi sotto i 50 dollari al barile.

UN SETTORE COLPITO DAL BASSO PREZZO

Tra le cause che hanno scatenato l’incremento delle produzioni, voluto dai sauditi e avallato dalla maggioranza dell’Opec (che con Riad fa cartello) – incremento che ha poi portato alla diminuzione del valore del greggio –, c’è la volontà dell’Arabia Saudita di mantenere alte le proprie quote di mercato andando a colpire il tallone scoperto dei produttori di shale oil: l’abbassamento del prezzo rende la tecnica per raggiungere questi specifici prodotti anti-economica. Negli Stati Uniti, che attraverso l’uso di queste riserve puntano all’indipendenza energetica (sogno vecchio decenni avviato dal presidente Richard Nixon), a causa del calo del prezzo del petrolio sono andati persi 60 mila posti di lavoro (dati della Texas Alliance of Energy Producers, associazione dei produttori di petrolio texani). Mentre i dati del colosso del settore Baker Hughes parlano di 236 impianti attivi rispetto ai 900 del 2014. Il Texas è uno degli stati più colpiti, anche perché aveva avuto un grosso aumento della produzione, quasi raddoppiata nel giro di cinque anni, grazie allo sfruttamento dei giacimenti Eagle Ford e Permian Basin. Impieghi, investimenti, indotto, danneggiati dallo scossone spinto dai sauditi: scrive la Reuters che sono più di 40 le compagnie petrolifere americane che nel corso del 2015 hanno dichiarato fallimento.

L’INCONTRO

L’ottantunenne Naimi ha tenuto martedì un keynote speech a Houston durante il CERA Week, importante conferenza internazionale sull’energia organizzata dalla società di analisi IHS (editrice della miglior rivista di intelligence a livello globale, Jane’s, e proprietaria della società di consulenza Cambridge Energy Research Associates, ossia CERA). Appuntamento fissato per le nove meno dieci ora locale: colazione evento. È stata la prima apparizione americana del ministro saudita da quando tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno del 2014 Riad decise di aprire a manetta i rubinetti (non partecipa al CERA Week dal 2009 invece). Quello di due anni fa fu il colpo definitivo in un mercato dove l’eccesso di offerta rispetto alla domanda (in contrazione per la crisi economica e il rallentamento della produzione industriale) aveva già avviato il prezzo al ribasso.

LA STRATEGIA SAUDITA

Riad si sta muovendo, cercando contatti e sponde in un mondo dove finora ha fatto da traino e decisore unilaterale, pur mantenendo comunque la propria completa indipendenza. La scorsa settimana Russia e Arabia Saudita hanno trovato un accordo per certi aspetti storico: i sauditi hanno concordato con un paese non Opec (e per molti aspetti non amico, vedi per esempio i lati opposti del campo di battaglia occupati in Siria) di congelare le produzioni di petrolio. Mentre l’Oman ha già preso posizioni più drastiche (Mohammed Hamed Al-Rumhy, ministro del Petrolio, ha fatto sapere che il suo paese ridurrà di un decimo le produzioni giornaliere) Naimi in Texas ha ucciso ogni residua speranza di una contrazione delle estrazioni: “Non vi è alcun senso di sprecare il nostro tempo alla ricerca di tagli di produzione”, ha detto, ricordando comunque che l’obiettivo saudita non è “dichiarare guerra allo scisto”. Per Naimi, come spiega Giuseppe Sersale, Strategist di Anthilia Capital Partners Sgr su Formiche.net, “tagliare la produzione vuol dire sussidiare i produttori con alti costi di estrazione, mentre la soluzione, per quanto dura possa essere, è che questi taglino i costi, o, se non possono, chiudano”. La legge del più forte, e nonostante tutto in materia petrolifera l’Arabia Saudita è ancora un colosso.

LO SCORNO CON L’IRAN

Il vertice con Mosca è comunque il segno evidente di come si cerchi un’intesa per far rialzare i prezzi, in paesi che al bene hanno vincolato il grosso delle proprie statualità. Ma Riad non si fida che qualora dovesse decidere di ridurre le quantità estratte, gli altri produttori si adeguino. Il pallino è sempre l’Iran: la proposta del congelamento è stata inizialmente accettata dalla Repubblica islamica, ma senza impegno (anche l’Iraq ha preso posizione analoga). Poi, martedì, mentre Naimi parlava a Houston il Ministro del Petrolio iraniano ha definito “ridicola” la proposta portata avanti da Russia e Arabia, lamentando il fatto che questa giunge proprio quando l’Iran è  in procinto di aumentare la propria produzione, in seguito al sollevamento dalle sanzioni (eliminate dal Nuclear Deal), mentre gli altri l’hanno appena aumentata. Nella questione si intrecciano ovviamente posizioni ideologiche e politiche: non a casa le dichiarazioni del ministro iraniano arrivano tre giorni prima delle elezioni parlamentari e per il rinnovo dell’Assemblea dei saggi (che si terranno il 26 febbraio). Dieci giorni fa invece, c’era stata un’apertura iraniana verso una trattativa con i sauditi, era stato il vice presidente a parlarne: Teheran non vuole aver problemi sulle produzioni in un momento in cui può ricominciare a vendere, ma spera comunque in un rialzo dei prezzi per avere margini di ricavo maggiori sulle esportazioni.

GRANE SAUDITE

L’Arabia Saudita affronta per la prima volta una situazione di non magniloquenza economica (giro di parole perché con il monte di moneta straniera accumulata nei floridi anni passati non si può certo parlare di ristrettezze). Nel 2016 taglierà il disavanzo per ben dieci miliardi di dollari, ci sono in previsioni delle privatizzazioni (si parla da tempo che in mezzo potrebbe rientrarci anche la Saudi Aramco, la società che gestisce il petrolio), sono stati bloccati e definanziati diversi importanti progetti ed investimenti, e per la prima volta nella storia di comincia a parlare dell’introduzione di un qualche sistema di tassazione sia indiretto (come l’introduzione dell’IVA) che sui redditi. Il Fondo monetario internazionale sono anni che lo chiede (la presidente Christine Lagarde lunedì c’è tornata sopra parlando dall’Arab Fiscal Forum di Abu Dhabi, chiedendo anche più differenziazione e minore dipendenza dal petrolio), ma finora Riad ha mantenuto in piedi il proprio sistema sociale anche grazie alla quasi totale assenza di tassazioni: ai sudditi niente tributi, ma anzi un ampio set di sussidi in piedi dal 1970 (e ora anche questo in revisione), al regno la possibilità di decidere univocamente su tutto. Il rischio è che l’introduzione delle tasse possa rendere il paese meno attraente agli investimenti stranieri: creando così un problema in più per Riad.

@de_f_t

 

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