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L’evoluzione del potere spiegata da House of Cards

Il rapporto tra fiction e potere può essere letto da due punti di vista. Da un lato, il potere rappresenta un ottimo soggetto per la fiction contemporanea e, dall’altro, nel mettere in scena il potere libero, ci svela come il nostro immaginario concepisca oggi l’idea di potere. Spesso la fiction anticipa addirittura la realtà. Lo ha fatto con le dimissioni del papa di Habemus papam di Nanni Moretti, con il presidente nero nella serie 24, con il clima di terrorismo diffuso nella fiction che anticipa l’11 settembre. D’altra parte, se l’Europa ha sempre utilizzato il pensiero critico, e quindi la saggistica, per esaminare lo spirito del tempo, l’America ha sempre avuto un pensiero pragmatico per cui rifuggiva a livello teorico dal pensiero critico stesso, e relegava la dimensione critica nel campo della fiction. Nella tradizione americana sono il romanzo e il cinema a mettere in discussione le idee dominanti. Mentre in Europa il concetto di potere era sottoposto a un’analisi spietata da parte del marxismo occidentale e diventava poi, con Michel Foucault, l’ossessione intorno a cui ruota tutta la decostruzione archeologica e la riflessione filosofica, in quegli stessi anni a Hollywood si produceva un cinema impegnato che aveva il suo centro la lotta del singolo contro il potere.

Quindi non sarebbe del tutto giusto dire che solo ora il potere è diventato un tema centrale nella fiction. La cosa sorprendente è come abbia cambiato segno. Oggi il singolo, il protagonista della fiction, non lotta contro il potere, lotta disperatamente per accaparrarsi un potere assoluto a livello personale. In Dimenticare Foucualt Jean Baudrillard notava come un momento in cui la discussione verte su un unico oggetto segnali in realtà la sua sparizione. Se Foucualt parla tanto del potere è perché, per Baudrillard, quel potere non esiste più. In realtà solo il potere cattivo è morto, sostituito dalla nozione di potere come unico obiettivo appetibile. Quelle stesse vite che trovavano nella lotta al potere costituito il senso della loro esistenza hanno lasciato il posto a una lotta spietata per il raggiungimento del potere personale.

Com’è successo e perché il potere ha cambiato segno? Penso che la risposta sia nel passaggio dalla modernità alla postmodernità. Il potere moderno nasce dal contratto sociale, vincolo con cui il suddito si sottopone al sovrano in cambio della sicurezza personale. Se per Thomas Hobbes nello Stato di natura l’uomo è un lupo, un predatore verso gli altri uomini, con il contratto sociale il singolo lascia nelle mani di un altro – il sovrano – la sua libertà, ricevendone in cambio sicurezza. Il contratto sociale viene sempre letto come una forma di limitazione e circoscrizione del potere, che non discende più al sovrano direttamente da Dio, ma si trasferisce a lui dal basso.

Basta prendere coscienza di questo meccanismo per erodere l’assolutismo e passare dalla monarchia assoluta allo Stato parlamentare. Così, infatti, le versioni successive del contratto sono complessivamente favorevoli ai cittadini, portando infine alle moderne costituzioni in cui la limitazione del potere nasce dalla divisione dei poteri stessi. Se però guardiamo le cose dal lato dell’individuo, e non da quello della società libera, alla base della costituzione della società e dello Stato rimane sempre una sorta di peccato originale: una cessione di libertà. Non a caso il neoliberismo che vede nella libertà individuale l’unico valore riconosciuto, vede anche nello Stato una sorta di male che va circoscritto alla pura difesa della sicurezza individuale. Uno Stato ridotto all’osso in una dimensione contrattuale originaria o, meglio, di un superamento tout court del contratto.

Entrare nella postmodernità trasforma il potere statale in male, in quanto violenza al singolo e alla sua libertà. Sciolto dal patto originario l’individuo ritorna homo hominis lupus. Il potere ritorna puramente soggettivo, sciolto da leggi scritte. Il fine giustifica i mezzi e ogni mezzo è buono per il raggiungimento del potere.

Per tornare alla fiction per cui negli anni d’oro della Hollywood impegnata il potere era male perché si ritorceva contro la società della democrazia, nelle nuove serie americane il potere non può che essere buono perché torna un puro fatto personale, una lotta individuale per la supremazia, un videogioco in cui il più forte o il più furbo o il più veloce devono prevalere. E come in un videogioco tutti noi parteggiamo e ci immedesimiamo in quello che, sino a ieri, era il cattivo libero, il tiranno, l’oscuro agente del male che in nome del profitto individuale brama contro il bene comune. In questa postmodernità che ricalca i valori della modernità, viviamo però la contraddizione di essere governati da Costituzioni moderne che cercano disperatamente di circoscrivere e annullare il potere individuale nella sua azione distruttiva nei confronti del bene comune. Una grande banca d’affari, mi sembra Morgan Stanley, ha tacciato così la Costituzione italiana di comunismo. Le Costituzioni nazionali, con la loro bizantiniana frammentazione del potere libero, diventano così il primo obiettivo da abbattere da parte della politica del fare. Non a caso Matteo Renzi ha cominciato da lì.

Come ho già detto, la politica non è più la ricerca del bene comune, della crescita e della prosperità del Paese, quanto l’occupazione dei posti di potere e, prima ancora, la conquista di maggioranze che diano accesso a quei posti. Come spesso accade, un telefilm, una fiction, riesce a essere più chiara di innumerevoli analisi sociologiche. Con House of Cards abbiamo uno sguardo all’interno dei meccanismi del potere. Il deputato del Partito democratico Frank Underwood, ha diretto la vittoriosa campagna elettorale di Garrett Walker, che è diventato presidente Usa. Quando però Walker non mantiene la promessa di affidargli l’incarico di segretario di Stato, Frank cerca una vendetta personale puntando i vertici politici di Washington e, pur di ottenere ciò che vuole, è disposto davvero a tutto. Nella versione americana, House of Cards è un ritratto della politica di quel Paese ma, in realtà, il romanzo da cui è tratto è ambientato nell’Inghilterra della Thatcher. È in quegli anni che inizia la rivoluzione che rende l’Europa terreno di conquista del neoliberismo.

Il pensiero unico si sostituisce alle categorie ideologiche di destra e sinistra. La politica, o meglio il suo apparato, è assolutamente indifferente nei confronti degli esiti reali delle riforme che promuove. Ad esempio, con la riforma della scuola. A nessuno interessa veramente se la scuola funzionerà meglio o peggio, le riforme sono un campo di battaglia, la scia di un duello dove affrontare e vincere gli avversari che, tra l’altro, non appartengono allo schieramento avversario, ma al proprio partito. Non mi impegno per migliorare la scuola, la giustizia, il lavoro: uso quei territori per fare le scarpe ai colleghi, salire nella scala gerarchica, acquisire potere personale. A nessuno interessa veramente cosa è buono e cosa no. E neppure cosa è giusto.

Anche negli altri telefilm americani contemporanei, come ad esempio Law and order, nessuno si batte perché la giustizia trionfi, perché i colpevoli siano puniti e gli innocenti assolti. È tutto un duello di fioretto tra avvocati e pubblici ministeri, per conseguire una presunta verità che risulti accettabile alla maggioranza dei giudici. Un duello in cui una parte soccombe e una vince. Come stanno davvero le cose non interessa assolutamente a nessuno. Se di solito nel nuovo telefilm americano l’intreccio – o meglio, gli intrecci multipli sviluppati tra loro che costituiscono la spina dorsale del dramma – è costruito sull’azione, la novità di House of Cards è costituita dal sostituire all’azione l’intrigo, la macchinazione, un’azione mentale, anziché fisica, che tira le fila degli eventi successivi. Intrigo come intreccio. Una partita a scacchi in cui l’azione è tutta nella mente del giocatore che conosce le mosse successive. Non ci sono controfigure, battaglie, potenti mezzi. Il dramma ti avvince proprio perché le pedine sono poche e quello che succederà non dipende da venti esterni, ma rappresenta la tela sapientemente costruita dal protagonista per irretire le sue vittime e raggiungere il potere. Insomma, nell’epoca del conformismo di massa, in cui ogni forma di critica è bandita, l’unica lettura critica della società passa oggi attraverso la fiction.

Articolo pubblicato sulla rivista Formiche

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