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Da Prof a Prof

Ho incontrato l’autrice di –Ho menato me e ho fatto bene. Il libro delle lettere: memorie e riflessioni di un’insegnante non pentita- prima della presentazione del suo libro che sarà oggi a Roma giovedì 10 marzo alle 17.30 alla libreria Arion Montecitorio in Piazza di Monte Citorio, 59.

Avendolo letto in anteprima, ho approfittato per farle delle domande che, immagino, emergeranno anche dagli altri lettori. E sono certa che anche voi, se verrete alla presentazione, o comprerete questo libro, nell’aprirlo e sfogliarlo rimarrete catturati dalle pagine che riportano i disegni, gli schizzi, i messaggi degli alunni lasciati ad una prof al termine di un percorso scolastico per fermare in poche righe il tempo del distacco.

Qui il merito va all’editore Bonfirraro, che ha compreso che il contenuto, cioè tutto il testo, non andasse trascritto, ma riportato fedelmente così com’era. Perché la vera espressione è anche la spontaneità del tratto e delle righe scritte a penna nei momenti in cui si vuole lasciare un messaggio. Una raccolta di pensieri, esperienze ed emozioni nel “libro delle lettere. Memorie e riflessioni di un’insegnante non pentita”. Sottotitolo del testo di Vincenza Barbagallo.

Cover libro HO MENATO ME

Da questo scambio, ed in qualche modo confronto per l’accomunarsi delle nostro professioni, è nata questa intervista che mi ha confermato quello che ho sempre sostenuto. Non si può insegnare se non se ne ha la vocazione. Anche io, in questi 18 anni trascorsi all’università, giorno per giorno, non ho trovato mai stimolo maggiore a proseguire questa professione che non sia stato l’arricchimento che ne è derivato in ogni rapporto che ho avuto la fortuna di approfondire. Anche io custodisco il sapore del dialogo fuori le ore di lezione, o intorno alla cattedra appena terminata, o come spesso è accaduto, confessioni e chiacchiere a ricevimento, e poi, lettere ricevute via email.

Ecco si, potrei stampare l’email, ma non avranno lo stesso sapore della carta, i biglietti scritti di getto sono un’altra poesia. Ma con queste generazioni si sa, la tecnologia è l’unica via di espressione.

Quindi mi rivolgo a Vincenza ed inizio l’intervista.

 – Quanto c’è nel libro della sua passione per l’arte e quanto della sua passione per la psicologia?

Quando ho iniziato a insegnare Arte, avevo con me un’alleata preziosa: la psicologia. Ho cominciato a curare la mia persona in tal senso fin da quando ero allieva in un Istituto d’Arte. Frequentavo, contemporaneamente alle materie artistiche, l’Istituto di Psicosintesi, fondato da Roberto Assagioli.  Questa  psicologia umanistica mi ha permesso, attraverso una formazione e una didattica, di contattare me stessa ai vari livelli psico-bio-spirituali. Quando ho iniziato a insegnare ho subito applicato metodi, già da me provati, in una delle prime scuole, una media di periferia. Anche quando nelle scuole superiori spiegavo geometria descrittiva, una materia di per sé ostica, utilizzavo alcuni metodi per aiutare gli allievi a sviluppare l’attenzione, la  concentrazione, la pazienza. Tutto questo è stato tesaurizzato dai ragazzi che mi hanno manifestato l’apprezzamento per quelle tecniche, che hanno poi applicato nel lavoro e nella vita.

– Lei parla spesso dell’importanza della ricerca del proprio talento. La scuola oggi aiuta in questa ricerca?

I propri talenti, a volte, si intravedono presto. I primi a intuirli dovrebbero essere i genitori. Occorre un silenzio evolutivo che permetta ai bimbi di vivere nel loro mondo di immagini, di sogni, nei loro dialoghi. Gli adulti spesso chiudono le porte alla immagine di sé, dei propri mondi interiori. Posso dire che ho sentito il mio talento fin da piccola. Quando disegnavo e coloravo con quei pochi colori, ero nel mio mondo incantato ed ero felice. Non c’erano giochi ”confezionati”. Noi figli eravamo gli ideatori, i costruttori delle nostre scelte fantastiche. Con i sassi costruivo appartamenti, che abbellivo con i fiori di campo. Oggi è tutto programmato per riempire il tempo, con elementi non loro, indotti, che non permettono ai giovani  di stare con se stessi. Questa scuola, ad eccezione della buona volontà di pochi insegnanti, non aiuta a sviluppare la propria creatività, a scoprire tra le mille strade quella che più intriga i ragazzi, quella che percorrerebbero senza fatica per tutta la vita. Troppe carte, troppa burocrazia, troppi allievi per classe. Poco spazio all’espressione del sé. Il talento si esprime quando il ragazzo percepisce i suoi stati d’animo, quando entra in contatto con le sue emozioni, i suoi sentimenti, è in pace con se stesso. Quando l’immagine che gli viene proiettata dall’adulto è  colma di stima, di bene, di fiducia.

– Invece il singolo ragazzo come deve procedere alla scoperta di se stesso?

L’adolescenza è un periodo dell’arco evolutivo complesso, pieno di contraddizioni, di dissonanze, di colori contrastanti e a volte stridenti, come in alcuni quadri espressionisti, che sono così belli! Occorre insegnare ai giovani a non vedersi sbagliati, ad accettare ogni parte di sé. Una accettazione attiva, che non vuol dire condividere. Si può non condividere ciò che ti fa soffrire, ma quella parte va compresa, vista, solo così si possono sciogliere i nodi. Allenarsi alla comprensione di sé porta, rispettando i propri tempi, al cambiamento. Ognuno è diverso, non c’è un prontuario unico per tutti. Vi sono varie tipologie umane, e all’interno di esse ci sono altre diversità. Occorre stimolare i giovani attraverso l’uso di varie tecniche, anche artistiche, a contattare se stessi per conoscere le possibilità che portano all’armonia del proprio mondo interiore. E non pretendere la perfezione! Van Gogh ha detto: “Non vi è pura bellezza senza un nonché di strano nelle proporzioni”.

– Qual è il ruolo dei genitori nella network society? Cosa devono fare per non “voltare le spalle ai propri figli” come scrive una sua allieva?

Il genitore deve prepararsi, essere consapevole dell’importanza, della serietà del proprio ruolo. Solo così nasce l’autorevolezza e non l’autoritarismo. Per ottenere autorevolezza, è necessario abbassare il proprio ego. Allenare la capacità empatica, la possibilità di un ascolto costruttivo, dar valore all’esempio, alla coerenza tra ciò che dice e ciò che è. Tutto rientra nelle dinamiche relazionali all’interno del contesto familiare. La coerenza e la chiarezza e il rispetto di regole condivise nell’ambito delle figure di riferimento: padre – madre. Tanto più importante questo se lo caliamo nel contesto sociale che viviamo in questi anni. I giovani sono bombardati attraverso i vari network di modelli, bisogni, stili di vita spesso deleteri. Affacciandosi ad un mondo virtuale dove tutto è scintillante, eccezionale, straordinario, spesso non riescono ad adattarsi alla ordinarietà della loro vita. Vengono spinti a comportamenti che i genitori non capiscono. A volte verso realtà artificiali, verso la droga. Poveri genitori, un mestiere veramente difficile, specie ai tempi d’oggi. Spesso non è vero che i genitori voltano le spalle: questa è la percezione dei ragazzi. A volte voltano le spalle per cercar aiuto altrove, coscienti della loro insufficienza. Il genitore di quella mia allieva che cito nella lettera, venne da me e con le lacrime agli occhi mi disse “professoressa solo lei può aiutarla, io non so cosa fare, mi aiuti”. Con incontri separati tra lui e la figlia riuscimmo a darle un aiuto.

– Nel suo libro si parla del tema del branco. Un adolescente può restare fuori dal branco senza rimanere isolato?

Certo, l’adolescente può rimanere fuori dal branco. Ci son altre forme di aggregazione tra i giovani, più sane, come lo sport, il volontariato, amicizie pulite , aggregazioni dove la religione non sia la violenza, lo sballo, il bullismo. Molti ragazzi riescono ad essere fedeli a se stessi, ai loro principi, ai loro obbiettivi. Hanno perseguito i valori e uno stile di vita proprio. Altri, purtroppo, vengono risucchiati. Perché? Una delle componenti è la solitudine, il non sentirsi amati, vittime di giudizi negativi: “voi pensate che io sia così? Bene allora sarò così”. Occorre allenare l’intuizione. L’intuizione è una delle qualità più alte dell’Io, permette di vedere ciò che ancora non è tangibile, manifesto. I genitori e gli insegnanti debbono avere questa grande alleata per cogliere il disagio di un giovane prima che cada nella trappola. Poi, l’ambiente. Crescere in una borgata degradata moltiplica la possibilità di  incontrare il “branco”. Specie quando la famiglia, per cultura o problemi economico-sociali, è assente.  Il branco crea un’idea dell’Io, una sorta di identificazione di gruppo, che affievolisce la vera volontà, allenta la responsabilità. Nel branco il giudizio negativo non è un problema, nel branco i valori vengono capovolti, non si soffre più per il non essere stimati. Per un ragazzo  ormai inserito nel branco, a volte una delle soluzioni è riuscire a fargli fare qualcosa che lo interessi e lo appaghi ( il gioco del calcio ad esempio)  per cui si sottometta spontaneamente alle discipline necessarie per raggiungere gli obbiettivi desiderati. Questa è la chiave, la fune gettata per farlo uscire dal baratro, nella speranza che egli la raccolga.

Spero di avervi convinto che passare alla ARION oggi pomeriggio potrà piacervi. Ma se non farete a tempo, leggete il libro, e poi mi direte se mi sono sbagliata.

 INVITO HO MENATO ME_COVER

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