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Ecco come i renziani Ferrara, Rondolino e Velardi sballottano D’Alema

Fra le tante bocciature che Massimo D’Alema si è procurato dando a Matteo Renzi voti ancora più bassi di quelli che di solito “Baffino” riserva a chi gli capita a tiro, le più velenose sono apparse quelle dei suoi ex collaboratori Claudio Velardi e Fabrizio Rondolino. Che gli hanno dato, rispettivamente, del “bollito” e dell’incompatibile, ormai, col partito cui si ostinerebbe chissà perché a rimanere iscritto, pur strizzando l’occhio alla scissione con l’aria solo di non escluderla. Cosa, secondo lui, derivabile anche dal fatto che i suoi vecchi e giovani compagni come Pier Luigi Bersani, Gianni Cuperlo e l’ex capogruppo della Camera Roberto Speranza, peraltro ritrovatisi inutilmente in un convegno urticante in Umbria, non riescono purtroppo a “incidere” come minoranza nel Pd.

Rondolino, che ne fu il capo ufficio stampa al partito ex o post-comunista scambiando D’Alema per il Tony Blair italiano, disposto ad essere scambiato per un “traditore” pur di innovare la sinistra, lo ha invitato senza mezzi termini a “congedarsi” dal Pd, visto che nessuno ha avuto ancora il coraggio, se mai lo avrà, di cacciarlo. E gli ha dato praticamente dello smemorato, perché “la nuova sinistra” rappresentata da Renzi altro non sarebbe che quella dalemiana tentata “negli anni Novanta”. O – udite, udite – quella “di Bettino Craxi negli anni Ottanta”.  Lo stesso Craxi che ripetutamente Renzi, considerandone la figura “non pedagogica”, ha sinora rifiutato di ammettere al “Pantheon” della sinistra come lui la intende e rappresenta.

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Più sottile e dottrinaria, persino da un punto di vista paradossalmente comunista, è stata la bocciatura di D’Alema da parte di Giuliano Ferrara. Paradossalmente, perché il fondatore del Foglio, pur provenendo da una famiglia in qualche modo storica del comunismo italiano, con la madre che fu segretaria fedele di Palmiro Togliatti e il papà corrispondente da Mosca e poi direttore del giornale ufficiale del Pci, ma anche presidente della regione Lazio e apprezzato e simpatico senatore, non aspettò certamente la caduta del muro di Berlino, nel 1989, per ripudiarlo. Fu tra i primi ad apprezzare il socialismo riformista e autonomo di Craxi, diventandone eurodeputato a Strasburgo. E nel 1994 fu il combattivo ministro dei rapporti con il Parlamento nel primo governo di Silvio Berlusconi.

Ebbene, il buon Ferrara, di cui Craxi mi soleva dire con amicizia che fosse cresciuto “sulle ginocchia di Togliatti” per i rapporti dei suoi genitori con il leader comunista, ha spiegato a D’Alema che il “Partito della Nazione”  da lui contestato con aria scandalizzata a Renzi è di origine o marca, appunto, togliattiana. Già il Pci “voleva essere – ha scritto testualmente Ferrara – partito della Nazione, della via italiana, eccezione ed esperimento in Europa” di un comunismo voglioso o capace di affrancarsi dall’ortodossia sovietica.

 

Al presidente del Consiglio e segretario del Pd, di scuola e provenienza democristiana, lettore assiduo e spesso divertito – mi assicurano – del giornale fondato da un Ferrara che scherzosamente ma non troppo si definisce adesso “fascio renziano”, sarà venuto il capogiro a sentirsi la testa rivoltata verso la buonanima di Togliatti, e non solo di Enrico Berlinguer, da lui già preferito all'”opportunista” Craxi nel summenzionato “Pantheon” della sinistra davvero riformista.

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Al mio amico Giuliano Ferrara piace legare con uno stesso filo, come solo lui sa fare, le varie esperienze ideologiche, politiche e umane che ha vissuto con uguale intensità e brillantezza, ma piace anche schernire, a volte persino con ferocia, chi entra in rotta di collisione con le sue idee del momento. Pertanto egli ha contestato a D’Alema “il linguaggio sciocco e risentito, signora mia” che usa nei riguardi di Renzi.

 

Meno male che una decina d’anni fa Berlusconi volle e seppe resistere ai consigli non nuovi del Foglio, allora di dichiarata e divertita “tendenza Veronica”, di adoperarsi per promuovere D’Alema al Quirinale. Dove invece, di provenienza comunista, arrivò alla fine Giorgio Napolitano con la mediazione, nel centrodestra, di Pier Ferdinando Casini.

Se le cose non fossero andate così, il linguaggio sciocco e risentito sarebbe oggi rimproverato a un presidente emerito della Repubblica, che Renzi avrebbe forse rottamato anche in questa augusta veste istituzionale, non appartenendogli la qualità del cristiano appena elogiata sulla sua Repubblica da Eugenio Scalfari, nel terzo anniversario festoso dell’arrivo di Francesco sul trono di San Pietro, come novità dell’’insegnamento del Papa venuto dall’altro capo del mondo: “ama il prossimo tuo più di stesso”. Non bastando amarlo come te stesso, secondo le vecchie abitudini e preghiere.

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