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Vilvoorde, la cittadina belga che lotta contro la radicalizzazione

È meno nota di Molenbeek, ma vanta il primato di essere una vera e propria macchina sforna jihadisti. Parliamo di Vilvoorde, una cittadina delle Fiandre di quasi 38.000 anime a circa venti minuti di distanza dal sobborgo finito, nell’ultima settimana, sulle prime pagine dei principali quotidiani internazionali.

VILVOORDE: LA CITTADINA SFORNA JIHADISTI

Vilvoorde, scrive l’Economist, ha una storia che rivela in maniera lampante l’altra faccia dell’istituzionalissimo Belgio. Tra il 2012 e il 2014 questa città, a soli dieci minuti dall’aeroporto di Zaventem, si pensa abbia prodotto più reclute per gruppi jihadisti stranieri, come quota di residenti musulmani, di qualsiasi altra città dell’Europa occidentale. La sua popolazione musulmana, dislocata territorialmente sulla linea ferroviaria che collega Anversa a Bruxelles, si è rivelata un facile terreno di caccia per i reclutatori che finora hanno spinto ben 28 giovani a partire per la Siria. «A Molenbeek è tutto alla luce del sole. È ben noto che i terroristi ci vivono. Quello che accade qui, invece, quasi nessuno lo sa», spiega Rafiq, un ragazzo che gestisce un chiosco proprio a Vilvoorde.

IL CRITICO CONTESTO SOCIO-ECONOMICO

Khadija Boulahrir, che ora lavora a Bruxelles, spiega al settimanale britannico di non riuscire a credere che il suo ex compagno di giochi si sia unito allo Stato Islamico. «Sono cresciuto con loro; erano solo ragazzi», spiega. Nella piazza Grote Markt della città un uomo più anziano spiega come questa deriva sia possibile: «Non c’è niente da fare qui per loro. Non ci sono posti di lavoro, nessun apprendistato, niente … è lo stato ad aver provocato questo».

Il 43% degli abitanti di Vilvoorde sono di origine straniera. Quasi la metà di questi sono disoccupati. Molti hanno genitori o nonni arrivati nella cittadina belga come lavoratori temporanei, prima che la fabbrica locale Renault chiudesse, ormai venti anni fa.

AFFRONTARE LA RADICALIZZAZIONE DI PETTO

In questo contesto certamente poco edificante, Vilvoorde si è sforzata negli ultimi anni di rivelare un’altra anima. Decisamente più positiva. A partire dal 2014, in particolare, il governo ha deciso di affrontare la radicalizzazione a testa alta. Tant’è che ora gestisce un programma di prevenzione applicato ai bambini e i giovani considerati a rischio. «Vogliamo dare loro la possibilità di sentirsi parte integrante della società», spiega all’Economist Moad el Boudaati, un assistente sociale il cui migliore amico è stato tra coloro che sono partiti alla volta della Siria e che passa la maggior parte del tempo a incontrare genitori, parlare con i giovani e lavorando con gli imam. «La maggior parte di coloro che si uniscono all’Isis provengono da famiglie disastrate», spiega.

IL PROGRAMMA MESSO IN ATTO

«Il vero obiettivo è quello di aumentare la resilienza, delle famiglie e dei giovani”, aggiunge Jessika Soors, che gestisce il programma. Non vi è nulla di rivoluzionario negli strumenti che lei e i suoi colleghi usano, la chiave è quella di convincere la gente a lavorare su diverse discipline. Il programma portato avanti nella cittadina di Vilvoorde prevede l’offerta di una terapia, se necessario, dell’indennità di alloggio per la famiglia, o il supporto nella ricerca di un posto di lavoro per i giovani. Gli “alert” possono provenire da genitori o scuole: dopo gli attentati di Charlie Hebdo, per esempio, la Soors spiega di aver ricevuto molte telefonate da insegnanti allarmati dal fatto che alcuni dei loro studenti definivano i killer “eroi”. La polizia, dal canto suo, viene coinvolta solo quando necessario per evitare di compromettere il rapporto di fiducia tra cittadini e volontari.

OPINIONI CONTRASTANTI SULL’APPROCCIO VILVOORDE

Al momento le opinioni sulla efficacia dell’approccio “soft” di Vilvoorde sono contrastanti. Ma programmi simili, considerati casi di successo, sono stati applicati ad Aarhus, in Danimarca e in Arabia Saudita. Le autorità ritengono che, proprio sulla spinta di tali programmi, alcuni individui abbiano lasciato la Siria da maggio 2014. Certo, la strada perché queste iniziative diventino pienamente efficaci è lunga e tortuosa. Soprattutto se si considera che trattare con rimpatriati è in qualche modo più difficile che evitare che giovani si radicalizzino.

Basti pensare che alcuni di loro, una volta tornati in patria, hanno pensato bene di ricreare delle cellule terroristiche con cui hanno poi realizzato gli attentati di Parigi e Bruxelles. E che uno di loro, secondo le autorità belghe, è ancora in fuga.

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