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Come e perché Putin ridimensiona l’impegno in Siria

israele, VLADIMIR PUTIN

È iniziato oggi, martedì 15 marzo, il ritiro di gran parte del contingente russo dalla Siria. Lo ha annunciato (quasi) a sorpresa il presidente Vladimir Putin nella serata di lunedì, nell’auspicio che possa rappresentare “un segnale positivo” e dando come motivazione il raggiungimento di gran parte degli obiettivi che il Cremlino si era prefissato.

GLI OBIETTIVI RAGGIUNTI

L’intervento russo in Siria è iniziato il 30 settembre: è stata un’operazione dal cielo, attraverso bombardamenti (9mila sortite) che hanno preso di mira sia i ribelli che lo Stato islamico, anche se quest’ultimo avrebbero dovuto essere l’unico vero target dell’operazione. In alcuni casi i militari russi si sono trovati in prima linea, ufficialmente non hanno mai combattuto però, sebbene abbiano fornito consulenza sul campo anche per mosse di artiglieria e terrestri. L’aumento del coinvolgimento russo di questi ultimi cinque mesi e mezzo (in realtà la Russia è stata sempre uno sponsor del regime siriano, a cui ha fornito armi e sostegno politico internazionale: vedi il caso delle armi chimiche) ha permesso al governo siriano di incrementare il territorio controllato e rafforzarsi nelle aree già detenute (400 centri abitati riconquistati, per un totale di 10 mila chilometri quadrati secondo i dati forniti da Mosca). Inoltre l’intervento in Siria ha permesso di far tornare la Russia al centro della scena come una potenza globale e, come ha scritto il Guardian, di ricevere più credito da parte dell’Occidente; prevenire, in linea di principio, che il cambio di regime venisse spinto da potenze esterne, in particolare quelle occidentali o dall’ormai arci-nemica Turchia; guadagnare un punto d’appoggio più forte in Siria, area strategica per Medio Oriente e Mediterraneo.

LA LOTTA ALLO STATO ISLAMICO

Tra gli obiettivi di Mosca c’era anche colpire i jihadisti russi sul campo di battaglia siriano prima che il rientro in patria potesse comportare spiacevoli conseguenze. Si stima che circa mille russi siano andati a combattere tra le linee del Califfato, anche se il ministro della Difesa a margine dell’incontro congiunto in cui Putin ha definito i termini della decisione, ha dichiarato che nel corso della campagna aerea della RuAF sarebbero morti oltre duemila combattenti di origine russa. Come ha osservato su Facebook il giornalista del Sole 24 Ore Alberto Negri, la lotta contro lo Stato islamico si potrà però dichiarare conclusa “soltanto quando cadranno Raqqa e Mosul, la capitale e la roccaforte del Califfato”. (“Si tratta di operazioni militari ma anche, e forse soprattutto, politiche”). Il ritiro a questo punto, dimostra che in fondo distruggere l’Isis non è mai stato il principale obiettivo dell’intervento russo in Siria, nonostante proprio in questi ultimi giorni le operazioni russe si siano proprio concentrate sulla città storica di Palmyra, che dalla scorsa estate è entrata sotto il controllo degli uomini di Abu Bakr al Baghdadi.

L’OPINIONE DELLO STORICO DI NOLFO

Lo storico delle relazioni internazionali, Ennio Di Nolfo, ritiene che la decisione di Putin “esprima le difficoltà russe di sostenere i costi di una spesa non indispensabili; ma credo anche che l’intervento abbia avuto successo nel suo obiettivo principale. Che era, nonostante i dissensi, quello di lasciare ad Assad molte buone possibilità di successo nel caso di una soluzione di compromesso che lo esponga a elezioni”, ha scritto su Facebook. Infatti ora – ha aggiunto Di Nolfo – “Assad può appoggiare il suo potere sull’appoggio iraniano, e degli Hezbollah e può contare su un esercito rinvigorito dalle armi russe. Si tratta di un punto di partenza che sul piano elettorale potrebbe essere redditizio. A meno che i rapporti tra le forze occidentali e l’Isis modifichino lo scenario e rendano meno traumatico lo svolgimento di elezioni in Siria”.

UNA CONTINGENTE RIMANE

In realtà i tecnici militari parlano di “rimodulazione”, termine che indica che la Russia manterrà soldati e varia panoplia in due punti strategici, Tartus, base navale di appoggio sul Mediterraneo, e Jableh/Latakia, base aerea al centro della regione etnicamente più vicina al governo siriano del presidente Bahsar el Assad. Mosca dunque non lascia solo Damasco, che potrà continuare a contare sull’appoggio sul campo di Iran e di Hezbollah (che finora si sono presi sulle spalle il grosso del carico delle operazioni di terra, riportando anche diverse perdite), mentre con la Russia fuori dal terreno della battaglia, riceverà anche un maggiore peso politico in fase negoziale. Da questo non è da escludere che, dato per assicurato un buon controllo territoriale ad Assad, il contingente che rimarrà in Siria si concentrerà maggiormente contro lo Stato islamico.

LA FASE NEGOZIALE

Il presidente siriano sarebbe stato avvisato telefonicamente dall’omologo russo (Assad ha dovuto emettere un comunicato diffuso tramite i social network per sottolineare che non era stato preso alla sprovvista dalla decisione di Putin), il quale ha avvertito della decisione anche Washington (evidentemente preso altrettanto di sorpresa, visto che inizialmente i funzionari del dipartimento di Stato hanno commentato la notizia con un “non sappiamo cosa commentare”). Stati Uniti e Russia hanno stabilito tre settimane fa i termini di un cessate il fuoco in vigore dal 27 febbraio, che in linea generale regge nonostante varie violazioni. La mossa di Putin arriva poche ore dopo l’inizio a Ginevra del nuovo round dei negoziati sotto egida delle Nazioni Unite, in un momento delicato della crisi, in cui Assad grazie proprio all’intervento russo ha recuperato forza e territorio, i ribelli sono stretti all’angolo, e lo Stato islamico ha subito un indebolimento da cui cerca di rialzarsi anche con azioni terroristiche (come gli attentati nelle ultime settimane a Damasco), ma non è sconfitto.

IL DISTACCO DAL GOVERNO SIRIANO

Il ritiro potrà facilitare lo svolgimento dei colloqui e darà maggiore spazio negoziale alla Russia, secondo le visioni del presidente: il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha sottolineato che l’operazione russa “ha creato le condizioni per avviare” un vero processo di pace. Togliersi dal campo di battaglia svincola Mosca dalle uscite sgradite fatte nelle ultime settimane da elementi del governo siriano: il ministro degli Esteri Walid al-Moallem ha dichiarato giorni fa che “il governo di Assad” era una “linea rossa” e che non ci sarebbero state in discussione elezioni presidenziali, due elementi che i russi non considerano (più) centrali, ma anzi li pongono come oggetto di negoziazione, e sui cui Mosca ha manifestato qualche “frustrazione” come scrive il New York Times.

LA REAZIONE DEI RIBELLI

Se le cancellerie mondiali stanno ancora cercando di decifrare la scelta di Putin, sul campo di battaglia i ribelli festeggiano. A Idlib i soldati delle brigate ribelli combattenti, compresi quelli della qaedista al Nusra, hanno per esempio distribuito dolci in strada, per festeggiare la fine della pressione russa (che ha colpito le aree del nord siriano, Latakia, Idlib, Aleppo, con costanza nell’arco dei mesi di intervento). I ribelli pensano che senza i russi l’esercito di Assad tornerà ad essere la mezza cartuccia che era stata prima del 30 settembre, e, al di là dei tavoli, dei negoziati e delle mosse geopolitiche, la guerra potrà continuare e magari essere vinta con la testa di Assad. Il 15 marzo è il quinto anniversario della rivoluzione siriana.

L’ANALISI

In una conversazione con Formiche.net, Pietro Batacchi, esperto analista militare, sottolinea che c’è un aspetto fondamentale da tenere a mente per comprendere uno dei lati della decisione di Putin: la questione economica, più volte affrontata da RID, rivista specialistica del settore Difesa, che Batacchi dirige. “Quello che da tempo ci si chiede – spiega l’esperto – era per quanto a lungo la Russia potesse tenere 5/6 mila soldati in Siria, con 70 caccia da combattimento che hanno sostenuto ritmi da 90 sortite giornaliere”. “Hanno sganciato tante bombe”, aggiunge Batacchi, e “gli ordigni costano”. La chiave economica non è da sottovalutare secondo l’analista italiano, il quale aggiunge che invece per dare una lettura militare definitiva “occorrerà aspettare i giorni successivi”, ossia capire di cosa si compone il dispiegamento che Mosca deciderà di lasciare in Siria. “Molto probabile che un dispositivo di deterrenza resti sia a Tartus che soprattutto a Latakia”, si parla dei sistemi anti aerei S-300 e S-400 la cui permanenza è stata confermata da Mosca, insieme a qualche caccia multiruolo (che secondo la Difesa russa servirà per compiere altri raid contro il Califfato): “Il primo problema militare infatti è capire come la Turchia interpreterà il disimpegno russo, e anche per questo Mosca lascerà qualcosa che possa rappresentare un deterrente per eventuali volontà turche” (Ankara, nemica giurata del regime siriano, aveva ventilato la possibilità di schierare soldati in Siria, ma poi anche per la presenza russa i turchi sono tornati indietro sulle proprie volontà). Inoltre, aggiunge Batacchi, “va capita la reazione dei ribelli” che “è probabile vedano positivamente per i loro interessi il ridimensionamento russo”.

Dunque la situazione è tutta in divenire, soprattutto perché la Russia dichiara di essere uscita di scena per favorire il percorso diplomatico, su cui finora nessuno avrebbe scommesso: “Ora resta da vedere anche il comportamento degli attori in causa, oltre e turchi e ribelli, ci sono i sauditi e l’Iran, e poi Assad, che potrebbe prendere fiato dalla situazione e considerarsi più forte di quanto in realtà non è: se è facile pensare che l’Amministrazione Obama accoglierà con favore la scelta di Mosca, le reazioni di queste controparti della questione siriana, sono molto meno scontate”.

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