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Ecco come e quando Renzi ha seppellito l’Ulivo di Prodi

Il nome, no. Non lo faccio. Figuriamoci se rivelo una fonte dopo avere subìto in gioventù un processo, uscendone con il proscioglimento dopo tre anni di noie e dieci giorni di arresti domiciliari, per non dire chi mi avesse fornito un documento riservato sulle connessioni internazionali del terrorismo.

Per il gusto di aggiungere una goccia di veleno di origine controllata alla rissa provocata nel Pd dall’accusa di Massimo D’Alema a Matteo Renzi di avere ucciso l’Ulivo che nel 1996 portò Romano Prodi a Palazzo Chigi, non vi dirò chi – dall’alto della sua notorietà e dei suoi precedenti istituzionali – mi ha sfidato a completare una ricostruzione, secondo lui reticente, del giallo dell’Ulivo raccontato su Formiche.net. Una sfida purtroppo viziata dall’impegno che poco coraggiosamente il signore mi ha strappato a lasciarlo nell’anonimato.

La reticenza avrebbe riguardato la “tragica giornata” del 19 aprile 2013, quando Romano Prodi, messo in pista nella corsa al Quirinale per acclamazione dai gruppi parlamentari del Pd, si vide bocciato a scrutinio segreto dopo poche ore nell’aula di Montecitorio. Dove gli mancarono non meno di 105 voti di cosiddetti “franchi tiratori” per essere eletto al quarto scrutinio, quando bastava la maggioranza assoluta, e non quella dei “due terzi dell’assemblea” richiesta dall’articolo 83 della Costituzione nei precedenti tentativi.

Piuttosto che insistere con altre votazioni sul nome dell’ex presidente ulivista del Consiglio, preceduto peraltro nella bocciatura dal suo collega di partito Franco Marini, si preferì correre al Quirinale per supplicare Giorgio Napolitano ad accettare l’emergenza di una conferma. Sulle piazze intanto i grillini, insensibili al fascino politico del professore emiliano e sorretti dagli immancabili dissidenti della sinistra, reclamavano l’elezione di Stefano Rodotà….tà…..tà.

Un no ad altri tentativi su Prodi giunse da Firenze, dove Matteo Renzi faceva ancora il sindaco, ma disponeva di alcuni amici eletti al Parlamento nella quota concessagli dall’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani nelle liste bloccate della legge chiamata Porcellum.

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D’accordo, ci fu nell’archiviazione della candidatura di Prodi lo zampino degli amici di Renzi. Che però erano allora francamente troppo pochi per essere stati decisivi. Ce ne n’erano di più numerosi e agguerriti contro Prodi nel Partito Democratico, dove addirittura si erano levate voci inneggianti a Berlusconi –“Meno male che Silvio c’è”- per il no gridato contro l’ex presidente ulivista del Consiglio e per l’invocazione della rielezione di Giorgio Napolitano. Che pure fu accusato dopo qualche mese di avere “complottato” nel 2011 per allontanare l’allora Cavaliere di Arcore da Palazzo Chigi, e farlo decadere nell’autunno del 2013 da senatore per la condanna definitiva per frode fiscale, con l’applicazione retroattiva della controversa legge che portava e porta il nome dell’ex ministra della Giustizia Paola Severino.

Ma poi, diciamo la verità, il Prodi candidato per qualche ora al Quirinale tre anni fa non era più quello dell’Ulivo per il semplice fatto che quella pianta era già morta con la caduta del suo primo governo, nel 1998. E rimorta dopo dieci anni anche nella riedizione chiamata “Unione”.

Al Prodi del 2013 non si chiedeva di resuscitare l’Ulivo come Lazzaro, ma solo di concedere a Bersani ciò che gli aveva negato Napolitano: la formazione di un “combattivo” governo di minoranza appeso agli umori dei grillini, non meno imprevedibili di quelli che erano stati all’epoca dell’Ulivo e dell’Unione quelli di Fausto Bertinotti e di Nichi Vendola, e dintorni.

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Pertanto se un contributo ci fu da parte di Renzi ed amici nella “tragica giornata” di venerdì 19 aprile 2013 fu non alla morte, ma alla sepoltura dell’Ulivo, già morto di suo da parecchio. Una sepoltura dovuta a quel punto per ragioni, diciamo così, igieniche.

Completata la ricostruzione dei fatti, secondo la sfida forse improvvisa fattaci da chi pensava che avessimo voluto coprire, qui a Formiche.net, chissà quali colpe o responsabilità di Renzi ed amici, mi resta solo il rammarico di non avere trovato lo spazio per occuparmi a caldo dell’incredibile inciampo di Guido Bertolaso, il candidato di Silvio Berlusconi a sindaco di Roma, nella gravidanza della sorella dei Fratelli d’Italia Giorgia Meloni lungo la scalinata del Campidoglio. Sarà per un’altra volta.

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