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Vi racconto chi bara (e chi no) sull’abbattimento dell’Ulivo di Prodi

Manco fosse Otzi, la mummia di oltre cinquemila anni custodita a Bolzano in una cella frigorifera a vista dei pochi ammessi ad affacciarvisi, i dirigenti del Partito Democratico hanno esposto al dibattito politico l’Ulivo: quello inventato dalla sinistra nel 1995 per riscattarsi dalla cocente sconfitta subita l’anno precedente nel primo scontro elettorale con il centrodestra improvvisato da Silvio Berlusconi. Lo hanno esposto non per celebrarne la vittoria, nel ventesimo anniversario delle elezioni che portarono nel 1996 Romano Prodi a Palazzo Chigi, ma per rinfacciarsene a vicenda la morte.

Ha cominciato un po’ troppo improvvidamente, come vedremo, Massimo D’Alema. Che come segretario del Pds-ex Pci aveva piantato l’Ulivo e ora accusa Matteo Renzi di averlo ucciso per la mania di inseguire i voti e gli uomini di Berlusconi, peraltro senza avere neppure la certezza di raccoglierli perché il centrodestra “è in crisi ma non finito”.

Il presidente del Consiglio e segretario del Pd ha risposto ritorcendo l’accusa, cioè sostenendo che ad uccidere l’Ulivo erano stati i suoi predecessori, ben prima che egli scalasse e conquistasse la guida dell’ultima edizione del Pci, allargata nel 2007 alla sinistra democristiana precedentemente confluita nella Margherita di Francesco Rutelli.

Mamma mia, quante piante e fiori nell’orto della cosiddetta seconda Repubblica, soffocata dalle troppe speranze e ambizioni fra le quali era stata immaginata e annunciata mentre le ruspe giudiziarie abbattevano i partiti della prima, indeboliti – bisogna riconoscerlo – dalla disinvoltura con la quale, a dispetto dei loro indubbi meriti storici, avevano preso l’abitudine di finanziarsi illegalmente.

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Costretta prima a fare con la Rifondazione Comunista di Fausto Bertinotti un accordo di desistenza elettorale per prevalere nelle urne del 1996, e poi ad imbarcarne la rappresentanza parlamentare nella maggioranza per governare, la coalizione ulivista guidata da Prodi fu colpita rapidamente da una specie di batterio killer: non quello della Xylella fastidiosa degli ulivi del Salento, ma quello della iella marxista del partito sopravvissuto allo scioglimento ufficiale del Pci.

Il 9 ottobre del 1998 il governo Prodi fu sfiduciato proprio dal partito di Bertinotti, peraltro spaccatosi per questo con l’uscita di Armando Cossutta e Oliviero Diliberto, disposti a contribuire alla ricomposizione della maggioranza ulivista ma insufficienti a garantirle i numeri per la fiducia.

Le strade da imboccare a quel punto potevano essere due. O andare alle elezioni anticipate, come reclamavano Prodi e il suo vice a Palazzo Chigi Walter Veltroni per cercare di acquistare nelle urne l’autonomia dalla sinistra estrema, o raccattare in Parlamento i numeri che mancavano sottraendone al centrodestra, pur di andare avanti in una legislatura ormai azzoppata.

D’Alema, deciso a prendere subito il posto di Prodi, senza essere minimamente scoraggiato dai collaboratori che ora lo criticano ferocemente, cioè Fabrizio Rondolino e Claudio Velardi, trasferitisi con lui a Palazzo Chigi per allestire la famosa unica banca internazionale d’affari in cui non si parlava inglese, come avrebbe detto sarcasticamente Guido Rossi commentando le iniziative economiche e di politica industriale del nuovo governo, scelse la seconda strada. E trovò l’aiuto di Francesco Cossiga, che gli pose però come condizione quella rifiutata da Prodi, cui pure l’ex capo dello Stato aveva offerto l’appoggio di un partitino improvvisato con Clemente Mastella: il riconoscimento della morte dell’Ulivo. Di cui Cossiga sentiva addirittura, e giustamente, la puzza di “marcio”.

La prova del delitto, se lo vogliamo chiamare così, è lì, in quel passaggio parlamentare, per cui Renzi, allora ben lontano a Firenze dalla politica nazionale, ha ragioni da vendere nel dire che lui di quel fattaccio non ha alcuna responsabilità.

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Pur morto già nel 1998, i compagni di D’Alema vollero tuttavia riesumare il cadavere dell’Ulivo dopo otto anni chiamandolo Unione, con le stesse componenti della volta precedente, e riproponendo a Palazzo Chigi Romano Prodi, nel frattempo parcheggiato lussuosamente a Bruxelles, alla guida della Commissione Europea.

Ma l’avventura, decollata a stento dalle urne per il classico pugno di voti, fallì in meno di due anni, a tal punto che Veltroni, succeduto a D’Alema e poi a Piero Fassino al vertice del partito nel frattempo allargatosi alla sinistra democristiana, giurò di non cercare più alleati sbandierando la cosiddetta vocazione maggioritaria. Ma contraddicendosi immediatamente con l’imbarco di Antonio Di Pietro. Che contribuì involontariamente alla vittoria elettorale di Berlusconi, destinato purtroppo anche lui a subire però nella sua coalizione di governo un batterio politico – quello di Gianfranco Fini – capace di essiccarla. E di spalancare le porte a governi atipici di tecnici e di maggioranze tanto larghe quanto spurie.

Il resto, costituito dal perdurante caos capitolino del centrodestra, o di quel che ne rimane, e la “guerra civile” nel Partito Democratico di Renzi, come l’ha appena definita Antonio Polito sul Corriere della Sera, è cronaca di questi giorni, e di queste ore.

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