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Come cambia il finanziamento delle università italiane

Estratto delle conclusioni del libro “Università in declino” (Donzelli editore) a cura del professor Gianfranco Viesti

Le evidenze contenute in questo rapporto sembrano giustificare le preoccupazioni espresse in apertura. Nell’università italiana si sommano problemi antichi; difficoltà connesse alla durata e alla profondità della crisi economica; politiche di governo che hanno determinato una sensibile contrazione della sua dimensione e effetti fortemente asimmetrici da un punto di vista territoriale. Si tratta di cambiamenti di portata storica, non di aggiustamenti congiunturali; stanno determinando una trasformazione profonda che può essere comparata forse per intensità – ma con un segno opposto – alla grande espansione dell’ “università di massa” che si è verificata negli anni del dopoguerra.

Per quanto i temi qui analizzati siano solo una parte di quelli rilevanti, e che le conclusioni raggiunte siano in alcuni casi parziali e incomplete, vi è motivo di pensare che le sorti dell’università italiana meritino non solo analisi più approfondite ma anche un complessivo ripensamento dell’indirizzo di governo seguito negli ultimi anni. Ciò che preoccupa maggiormente è che le dinamiche che si sono innescate a partire dal 2008 abbiano attivato un processo cumulativo, che tende ad accentuare nel tempo, e non a risolvere, diverse delle criticità che qui sono state evidenziate; che viene rafforzato dalle scelte più recenti. Per vedere una trasformazione ancor più radicale dell’università italiana basterà attendere.

L’interazione che si è venuta determinando fra la dimensione del Fondo di finanziamento ordinario (FFO) e le regole che presiedono alla sua allocazione e l’assegnazione di punti organico e le regole che presiedono alla loro attribuzione, ha costruito un meccanismo “a palla di neve”: per le università che sono collocate in posizione sfavorevole. Indipendentemente dai loro comportamenti è impossibile arrestare un processo di contrazione delle risorse finanziarie ed umane, e quindi dell’offerta didattica e dell’immatricolazione di studenti: tutti elementi che si contraggono contemporaneamente o in sequenza, ciascuno rinforzando l’effetto degli altri.

Le complessive dinamiche di trasformazione dell’università italiana stanno avendo e avranno per lungo tempo conseguenze profonde: sulla capacità del paese di rafforzare aree di ricerca scientifica e tecnologica che alimentano la sua competitività; sulla formazione delle classi dirigenti in senso lato; in particolare di quel capitale umano di qualità che è il fattore produttivo decisivo nell’economia dei prossimi decenni; sul ruolo degli atenei come protagonisti dei processi di trasformazione e di innovazione delle società e delle economie locali, in un paese così diverso al suo interno come l’Italia; sulla mobilità sociale e sulla possibilità di contrastare il protrarsi delle disuguaglianze fra famiglie ed individui.

Dal 2011 sembra essersi determinato poi un momento storico in cui i tradizionali, profondi, divari di benessere esistenti fra le regioni italiane (che sono rimasti sostanzialmente stabili per circa tre decenni), hanno ricominciato ad aumentare significativamente; come effetto sia delle caratteristiche della crisi economica (che ha particolarmente compresso – a differenza di quanto avvenuto in altri periodi difficili per il paese – la domanda interna), sia dalle modalità procicliche delle politiche di austerità e delle loro modalità attuative, che si sono rivelate assai asimmetriche territorialmente, con un maggiore aumento della pressione fiscale, e maggiori riduzioni di spesa, corrente e di investimento, nel Mezzogiorno. Contemporaneamente, si rafforzano antichi divari e se ne aprono di nuovi anche nel sistema universitario. E’ bene sempre ricordare che un maggiore sviluppo dell’intero paese potrà determinarsi solo attraverso una crescita molto maggiore del Mezzogiorno.

Ma un più ampio sviluppo e una migliore coesione sociale (ma anche un più elevato livello di virtù civiche) nel Mezzogiorno potranno determinarsi anche e soprattutto attraverso un aumento dei livelli di istruzione superiore di quote importanti della popolazione e attraverso un migliore e più intenso ruolo anche degli atenei nelle attività di ricerca e di trasferimento tecnologico, una maggiore partecipazione del mondo universitario alla vita associata. Dimensione e qualità del sistema universitario del Sud (del Centro-Sud) non sono quindi una questione locale, ma un importante elemento dei processi di crescita dell’intero paese.

Sarebbe inoltre opportuno chiedersi quale sia il modello di università verso cui si sta orientando l’Italia. Specie rispetto alle tre grandi questioni che venivano poste in apertura: a) quanto si ritiene debba essere grande il sistema e quanto debbano essere elevati i processi di istruzione terziaria dei giovani italiani nei prossimi decenni; b) quale debba essere la sua articolazione territoriale e rispetto a quali elementi si debba garantire uniformità ovvero accettare diversificazioni; c) quali siano gli obiettivi di qualità che ci si pone, per tutti gli atenei del sistema, nella composizione e nei comportamenti sia del corpo docente che degli studenti, nella didattica, nella ricerca, nelle relazioni con il territorio. Una riflessione capace di guardare al lungo periodo. Quello di cui si discute è il futuro di istituzioni che hanno in alcuni casi una storia plurisecolare (Federico II istituisce a Napoli la prima università pubblica del mondo nel 1224; l’ateneo catanese nasce nel 1434, quello messinese nel 1559) e che hanno svolto un ruolo fondamentale nella formazione delle classi dirigenti del paese.

Con una meditata risposta a queste grandi questioni, si potranno mutare regole e scelte degli ultimi anni, con un indirizzo molto attento alle loro conseguenze di medio e lungo periodo, e assai meno influenzato da slogan orecchiabili ma privi di effettiva consistenza.

In base alle analisi qui presentate, un’agenda per le politiche per l’università dei prossimi anni potrebbe vertere almeno sulle seguenti questioni:

a) un sensibile e progressivo incremento del FFO per l’università, per portarlo nel medio periodo ad avvicinarsi a quello degli altri paesi europei;
b) il sensibile incremento e il mantenimento di una quota base, in grado di coprire integralmente i costi degli atenei, basata sul calcolo di un costo standard per studente significativamente rivisto e su meccanismi di assicurazione della qualità (escludendo i docenti inattivi);
c) una radicale revisione dei meccanismi di finanziamenti, comunque aggiuntivi, per le attività di ricerca;
d) lo spostamento in sede nazionale delle politiche per il diritto allo studio, con la definizione di una politica per le borse di studio, e di meccanismi fiscali di incentivo per le locazioni agevolate;
e) una radicale revisione per le politiche di tassazione con norme nazionali che ne assicurino fasce di esenzione, progressività e limiti rispetto al totale del finanziamento degli atenei;
f) la progressiva immissione di nuovi docenti e ricercatori, a copertura dei previsti pensionamenti, e con il recupero dei vuoti più rilevanti creatisi negli anni scorsi, con una distribuzione per sedi basata sulle esigenze didattiche;
g) interventi per la promozione di corsi magistrali e di dottorato comuni fra più università, con una equilibrata distribuzione territoriale.

Vi sono elementi che attengono in particolare al sistema universitario del Mezzogiorno e per molti versi anche delle regioni del Centro. In questa parte del sistema, per interrompere circoli viziosi, e per superare vecchie e nuove criticità, nuove meditate regole e scelte nazionali sono condizione indispensabile ma forse non sufficiente. L’Italia, quantomeno formalmente, persegue una propria politica di sviluppo regionale parallela alla politica di coesione europea, che si sostanzia nelle allocazioni a valere sulle risorse pluriennali del Fondo Sviluppo e Coesione (FSC). Mentre la politica di coesione europea, per proprie regole (discutibili) non può avere effetti sensibili sulla situazione delle università, il Fondo Sviluppo e Coesione potrebbe svolgere un ruolo fondamentale.

Per l’evidenza presentata in queste pagine, parrebbe pienamente giustificato un programma pluriennale di intervento per il rilancio del sistema universitario del Mezzogiorno (ma anche di molte altre sedi del Centro, e anche del Nord). A patto di evitare due errori paralleli ma convergenti che spesso hanno caratterizzato e caratterizzano le politiche di sviluppo regionale in Italia. Il primo è quello di disegnare regole generali squilibrate a danno delle regioni più deboli del paese e intervenire con risorse “aggiuntive” (come quelle del FSC) solo per ripristinare un livello simile. Il secondo è quello di garantire agli attori e agli interessi delle aree oggetto di intervento risorse e progetti supplementari, senza stabilire con chiarezza gli incentivi necessari a correggere distorsioni e debolezze che si manifestano, e quindi chiari obiettivi da raggiungere. Il programma non dovrebbe quindi contribuire a compensare squilibri o a garantire flussi di risorse; ma a contrastare condizioni strutturali, esterne ed interne agli atenei, che ne condizionano funzionamento e crescita.

Tale programma, assicurate politiche nazionali come quelle appena accennate, potrebbero vertere su:

a) azioni strutturali di miglioramento della vita degli studenti nelle città universitarie (alloggi, locazioni, mobilità, servizi culturali);
b) una politica di attrazione di studenti dal Mediterraneo e dai Balcani, lungo le linee che sono state evidenziate in precedenza;
c) promozione di interventi per la ridefinizione/specializzazione dei corsi di laurea magistrale e di dottorato, anche attraverso forme di collaborazione fra più sedi;
d) definizione, su base competitiva ma con elementi di equilibrio territoriale, di corsi di studio e di attività di ricerca di eccellenza, anche attraverso la mobilità di docenti provenienti da altre università italiane e straniere.

Potrebbe anche essere organizzato, oltre che su interventi orizzontali, su accordi di “performance” con le diverse sedi, nei quali siano definiti obiettivi da raggiungere, contrattati e definiti fra autorità centrali e atenei62.
La speranza è che, con le analisi contenute in questo Rapporto, si sia prodotto uno stimolo a riflettere sulle caratteristiche e sull’articolazione del sistema universitario, cui si vuole tendere nei prossimi decenni. E sulle azioni che – pur in tempi di risorse assai scarse – possono essere realizzate per favorirne uno sviluppo virtuoso.

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