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Panama Papers, scandalo o fuoco di paglia?

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Quelli che la sanno lunga hanno accolto con sorrisini ironici la dichiarazione del Cremlino che le Panama Papers, i milioni di file sottratti a uno studio legale di Panama e scaricati in questi giorni nelle fauci voraci del sistema internazionale dei mass media, una sorta di lista Falciani all’ennesima potenza, sono il risultato di un’operazione architettata dalla Cia per infangare il presidente Putin. Già, sempre colpa della Cia.

Certo, che l’Icij (International Consortium of Investigative Journalists), l’organizzazione dal nome lievemente inquietante che ha “firmato” questo ciclopico polpettone mediatico abbia base a Washington non dice niente, così come dice poco il fatto che la maggioranza dei giornalisti che ne fanno parte provengano dalla scuola di giornalismo della Columbia University o da altre analoghe istituzioni universitarie o mediatiche del mondo anglosassone. Nemmeno si può dare troppa importanza al fatto che uno dei principali pilastri europei del consorzio, Le Monde, sia entrato da qualche anno nell’orbita della newyorchese Lazard (circostanza per la quale – sia detto per inciso – il povero generale De Gaulle si starà ancora rivoltando nella tomba). Qualche cosa di più potrebbe dire il fatto (lo ha riferito il vice direttore di Libero, Pietro Senaldi, a Linea Notte del Tg3) che nelle liste di sospettabili riciclatori/occultatori/trafugatori di capitali contenuti nei file e additati al pubblico ludibrio non ci sarebbe traccia di cittadini americani, ma questa è una circostanza che potrebbe essere interpretata anche nel senso esattamente opposto: possibile che un’agenzia diabolicamente astuta, o presunta tale, come la Cia, sia incorsa nell’errore puerile di depurare le liste dai nomi di tutti i cittadini Usa, minando così irrimediabilmente la credibilità dell’intera operazione?

Cia o non Cia, resta un dato di fatto obiettivo: tutte le prime pagine della grande stampa internazionale e le aperture dei telegiornali di lunedì 5 aprile hanno puntato sul nome di Vladimir Putin, il “nuovo zar”, in base alla circostanza che tra i clienti dello studio Mossack Fonseca di Panama vi sarebbe un musicista russo intimo di Putin, accreditato di una disponibilità di 2 miliardi di dollari. Così come è un dato di fatto che, nella stragrande maggioranza, i mezzi d’informazione internazionali (ivi compresi quelli della “neutrale” Svizzera), da molti anni fanno a gara nel dipingere Putin solo come un autocrate violatore dei “diritti umani” (locuzione sulla quale ci sarebbe da discutere) e come il principale pericolo per l’Occidente, l’Uomo Nero insomma.

E’ obiettivamente (ma, a quanto pare, non soggettivamente) difficile sottrarsi all’impressione che sul tema dei rapporti Russia-Occidente i mezzi d’informazione occidentali siano schierati. Chi si ricorda più di Julija Timoshenko, già primo ministro ucraino, poi eroina dell’opposizione al governo filorusso di Kiev guidato dal premier Viktor Yanoukovitch, che Angela Merkel voleva fare uscire dalle carceri ucraine per ospitarla in un nosocomio in Germania dove sarebbe stata curata dai malanni indotti dal regime carcerario filo russo. Conclusa, bene o male, la cosiddetta rivoluzione di Maidan con la cacciata (“destituzione”) di Viktor Yanoukovitch (tecnicamente un colpo di Stato), della signora Timoshenko, già protagonista di mille prime pagine e mille telegiornali, non si è più parlato se non i pubblicazioni di nicchia. Dove sarà finita? Come se la passa? E’ tornata in salute? Ecco, piacerebbe che un giornalismo, magari non consortile e nemmeno “investigativo”, ma semplicemente giornalistico, nutrisse qualche curiosità al riguardo.

Quelli ora evocati, tuttavia, sono aspetti secondari, più di colore che di sostanza. La sostanza è un’altra. L’operazione Panama Papers è stata presentata come l’ultima e definitiva campagna nella guerra all’ultimo sangue dell’America contro i paradisi fiscali, un virus a quanto si dice più pericoloso dell’Aids. Ebbene, mentre quasi tutti i Paesi del mondo, compresi Singapore, gli Emirati Arabi, il principato del Liechtenstein e quello di Monaco si sono rassegnati, soprattutto in virtù delle pressioni americane, a firmare accordi per lo scambio automatico delle informazioni bancarie e finanziarie sui non residenti, ciò che equivale per i paradisi fiscali a un suicidio a termine dove il termine è la data di entrata in vigore degli accordi, chi tiene davvero a conservare l’anonimato sui propri beni ha, ancora oggi, una scelta sicura, il South Dakota, uno stato agricolo degli Stati Uniti che conosce da qualche anno un vero e proprio boom grazie ai trust che si sono costituiti per accogliere i capitali degli straricchi di tutto il mondo in fuga dai paradisi fiscali d’antan, A questi capitali, purché non svolgano attività negli Stati Uniti, è garantito un anonimato impenetrabile. (Anche se – fa notare un diffidente avvocato ginevrino che ne mastica – con gli americani non si è mai al riparo da qualche sgradevole sorpresa, sicché è meglio non prendere per oro colato quel che promette la vetrina di questo nuovo supermarket del segreto finanziario).

Resta il fatto che l’unico grande Paese del mondo occidentale dove la trasparenza finanziaria è a senso unico è appunto l’America, che le esige da tutti, ma non si impegna a contraccambiare. Così come è un dato di fatto che alle crociate del puritanesimo finanziario americano si accompagna, per esempio, la sostanziale immunità penale riconosciuta di fatto ai dirigenti responsabili della devastazione seguita all’esplosione della bolla dei subprime (2008); quanto alle mega multe incamerate dal Tesoro americano, queste sono state pagate dalle banche, non dalle persone responsabili, e sono pure fiscalmente deducibili. Tutto questo, senza dimenticare che queste crociate, condotte con la partecipazione entusiastica, quasi con trasporto, dai mezzi d’informazione europei, hanno pesantemente ridimensionato la quota di mercato dei servizi finanziari di tradizionali protagonisti come la Svizzera, a vantaggio dei concorrenti anglosassoni.

Ancora una volta, nessuna curiosità, nessun faro dell’opinione pubblica su questi argomenti, diciamo pure su questi nuovi paradisi fiscali. Naturalmente non c’è da stupirsene. Per troppi decenni lo zio Tom è rimasto la stella polare, per gli operatori dell’informazione, al di là degli orientamenti politici e culturali: era ed è una questione di “appartenenza”, come Giuliano Ferrara ha avuto il merito di chiarire ripetutamente senza nessun complesso. Questo atteggiamento è destinato a cambiare, non per un’improvvisa illuminazione degli spiriti gregari ma solo perché già da tempo le priorità dell’America si sono spostate dalla vecchia Europa all’Asia.

Insomma, ci vorrà ancora un certo tempo, ma alla fine queste Panama Papers potrebbero anche trasformarsi in un grande fuoco di paglia.

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