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Ecco ire e amnesie di Massimo D’Alema verso Matteo Renzi

A Massimo D’Alema i numeri di Matteo Renzi, come tante altre cose del segretario del suo partito e presidente del Consiglio, non piacciono. Gli debbono far male come le scarpe strette: a lui, poi, che le scarpe le vuole così comode che preferisce farsele fare a mano, come si scoprì quando, negli anni d’oro della sua carriera politica, e non esisteva ancora l’euro, si vantò durante una cena con amici, secondo una leggenda di palazzo, di calzarne un paio costatogli un milione e mezzo di lire.

Vestito di scuro, come il suo umore, appena dopo avere disertato la riunione della direzione nazionale del partito conclusasi con 98 voti favorevoli alla relazione di Renzi e soltanto 13 contrari, l’ex presidente del Consiglio ha preferito confermare e spiegare tutto il suo dissenso nell’ospitale salotto televisivo di Lilli Gruber, a la 7, spalleggiato con molta misura – va detto – dall’ex direttore, o direttore emerito, della Repubblica Ezio Mauro. Che ad un certo punto, forse memore delle aperture di credito recentemente concesse a Renzi anche dal fondatore del suo giornale Eugenio Scalfari, dopo quelle dell’editore in persona Carlo De Benedetti, ha invitato l’ospite ad andarci piano con l’accusa di “arroganza” al segretario in carica del Pd. Piano, per non essergli stato da meno quando il comando, del partito e poi del governo, era toccato a lui.

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Forse arrogante pure lui, ha praticamente risposto D’Alema a quell’impertinente di Mauro, ma sicuramente più “rispettoso” delle competenze e della storia degli uomini con i quali aveva avuto occasioni di polemica e di scontro. Come Walter Veltroni, da lui sconfitto nella corsa alla guida dell’allora Pds-ex Pci ma poi sostenuto alla sua successione nel 1998, quando D’Alema volle trasferirsi a Palazzo Chigi per sostituire uno sfiduciato Romano Prodi, di cui lo stesso Veltroni era stato vice presidente del Consiglio nella prima e breve stagione dell’Ulivo.

D’Alema ha ricordato, in un soprassalto di sincerità ma anche di risentimento per Renzi, come vedremo, di non essersi limitato, in quell’ormai lontano 1998, a compensare politicamente Veltroni cedendogli la segreteria del partito contestatagli qualche anno prima. Da capo del governo egli si adoperò, riuscendovi, anche per valorizzare le capacità di Prodi, cui procurò a livello internazionale i consensi necessari alla nomina a presidente della Commissione esecutiva dell’Unione Europea, a Bruxelles. Dove il professore emiliano si allenò per un secondo, per quanto anch’esso breve e sfortunato passaggio alla guida del governo italiano, dal 2006 al 2008, assegnando a D’Alema il prestigioso incarico di ministro degli Esteri.

Non era di moda allora – è stato il senso del racconto di D’Alema – la pratica irrispettosa e brutale della rottamazione teorizzata ed eseguita poi da Renzi. Cui l’ex presidente del Consiglio ha rimproverato di trattare peggio degli avversari i compagni dissidenti di partito, e di trasformare le riunioni della direzione e dell’assemblea nazionale del Pd in appuntamenti inutili, privi di “reale ascolto e confronto”, proprio per questo ormai disertate da lui. Evidentemente convinto, al di là di un formale “apprezzamento”, della sostanziale inconsistenza dell’opposizione esercitata dai pochi che vi partecipano ancora. Un giudizio, questo, nei riguardi dei vari Gianni Cuperlo e Roberto Speranza, rispettivamente ex presidente del partito ed ex capogruppo della Camera, entrambi intervenuti nell’ultima riunione della direzione, in fondo ancora più amaro di quello riservato a Renzi.

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La parte più acida e personale dell’intervento televisivo di D’Alema – peraltro insolitamente solidale con i magistrati rimbrottati da Renzi, lui che ai tempi della presidenza della commissione bicamerale per la tentata riforma costituzionale aveva avuto scontri epici con le toghe – è stata quella in cui egli ha ricordato la mano data all’ex sindaco di Firenze nella campagna elettorale europea di due anni fa: quella conclusasi col 40 per cento e più dei voti, alla maniera della Dc fanfaniana del 1954. Una campagna praticamente aperta dalla spontanea e studiata partecipazione di Renzi ad un libro dello stesso D’Alema sui problemi dell’Europa: cosa apparsa a molti come la premessa o l’intenzione di Renzi, ancora fresco di nomina a presidente del Consiglio, di utilizzare le competenze del pur ormai ex deputato di Gallipoli nella nuova Commissione Europea. Dove invece Renzi si spese poi per trasferirvi dalla Farnesina la giovane Federica Mogherini, peraltro destinata a deluderlo come “alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza”.

Per quel ruolo, pur fatto in verità più di parole che di sostanza, D’Alema in effetti, con la sua esperienza, avrebbe potuto rivelarsi più utile della Mogherini all’Italia e al presidente del Consiglio. Che forse si sarebbe, fra l’altro, risparmiato anche quell”indecente” attribuita da D’Alema, sempre nel salotto di Lilli Gruber, all’astensione dal referendum contro le trivelle. Un aggettivo francamente più rancoroso che altro, essendo l’astensione oggi sostenuta da Renzi un’opzione legittima, peraltro adottata dal partito dello stesso D’Alema in occasione di altri referendum abrogativi, come quello promosso a suo tempo dai radicali contro il famoso e ormai ex articolo 18 sui licenziamenti.

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