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Ecco la vera ossessione di Matteo Renzi

Matteo Renzi

Pur gratificato dalla conclusione, finalmente, del lungo percorso parlamentare della riforma costituzionale, che la Camera sta per approvare in ultima lettura, come si dice in gergo tecnico, passando poi la parola agli elettori col referendum confermativo in autunno, Matteo Renzi ha un’ossessione. Che non è quella di perdere la prova referendaria, essendo tanto sicuro di vincere contro un cartello esteso da Silvio Berlusconi a Beppe Grillo, da Matteo Salvini a Nichi Vendola, da Gaetano Quagliariello a Gustavo Zagrebelsky, che si è impegnato a dimettersi, e a chiudere la sua esperienza politica in caso di sconfitta. Cosa che -osservano sarcasticamente i suoi avversari- consentirebbe finalmente di conoscerne il mestiere d’origine, risalendo al 1999 la nomina a segretario provinciale fiorentino dell’allora Partito Popolare-ex Dc, al 2004 l’elezione a presidente della provincia, al 2009 l’elezione a sindaco di Firenze, alla fine del 2013 la conquista della segreteria del Partito Democratico e al 2014 l’approdo a Palazzo Chigi. Appartengono insomma alla politica 17 dei soli 41 anni anagrafici del presidente del Consiglio: poco meno della metà. Politica e cicoria, avrebbe detto con la solita arguzia uno specialista della materia come fu Giulio Andreotti.

Ad ossessionare Renzi non è neppure il referendum del 17 aprile contro le trivelle, che lui spera ancora naufraghi nell’astensionismo e gli avversari invece che si trasformi nelle replica dell’infortunio politico in cui incorse nel 1991 Bettino Craxi con il referendum contro i voti plurimi di preferenza alla Camera. Che il leader socialista, al pari di Umberto Bossi, invitò imprudentemente gli elettori a disertare andando al mare. L’argomento delle trivelle sembra che non stia scaldando più di tanto il pubblico, nonostante l’impopolarità, diciamo così, procurata a tutto ciò che riguarda il petrolio dall’inchiesta giudiziaria esplosa sulle estrazioni lucane di Tempa Rossa, e affari connessi.

Ad ossessionare Renzi, o ad ossessionarlo più di tanto, non è nemmeno il pur difficile turno elettorale amministrativo di giugno, che potrebbe riservargli brutte sorprese a Roma per effetto dei grillini, a Napoli con la conferma del sindaco uscente Luigi de Magistris, che si vanta di avere “derenzizzato” la città del Vesuvio, e a Milano per la grazia fatta al centrodestra da Corrado Passera schierandosi con Stefano Parisi, e turandosi il naso, alla Montanelli, per la compagnia anche di Matteo Salvini. Che intanto non si lascia scappare occasione per confermarsi troppo ingombrante, visto anche il modo col quale ha appena reagito a un discorso di Sergio Mattarella su confini da abbattere o allentare, per quanto il presidente della Repubblica avesse parlato non dei profughi da importare ma dei buoni vini italiani da esportare.

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La vera ossessione di Renzi è di essere scambiato per Berlusconi nella polemica ingaggiata con i magistrati per le indagini sul petrolio a Potenza. Che, per il solito uso delle intercettazioni, sono arrivate a processo sui giornali prima che nelle aule giudiziarie, con tutti gli inconvenienti che ne derivano. Fra i quali ci sono le certe e immediate sentenze mediatiche di condanna e le incerte sentenze vere, quelle definitive, nei tribunali regolari della Repubblica.

Il presidente del Consiglio fa bene, anzi benissimo, a volersi distinguere da Berlusconi quando ne ricorda i tentativi di difendersi dalle inchieste e dai processi, peraltro promossi contro di lui in quantità quasi industriali, e perciò sospette, ricorrendo a impedimenti processuali e a scudi legislativi gestiti in Parlamento dai suoi stessi legali, con una commistione di ruoli che ha nuociuto anche all’efficacia della sua difesa, oltre ad avere avvelenato i rapporti politici e istituzionali. Ma Renzi sbaglia quando, pur di non essere confuso con Berlusconi, dice e non dice, fa e non fa, avanza e arretra nel reclamare una gestione più rapida e insieme garantista dell’azione giudiziaria. Egli mostra così di avere più paura che coraggio. Più che “stimolare” i magistrati, come precisa, a lavorare “meglio” e “di più”, egli rischia di confondere le idee ai suoi principali interlocutori politici, che sono gli elettori.

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Dopo averlo sentito giustamente protestare contro l’abuso delle intercettazioni telefoniche, diffuse dai magistrati anche per le parti e gli aspetti non attinenti all’oggetto delle indagini o ai reati ipotizzati, si resta un po’ basiti sentir dire da Renzi che non intende “rimettere le mani” sulla materia, come hanno appena titolato i giornaloni.

Non tranquillizza la precisazione di non volere rimettere le mani sulla legge di modifica della disciplina delle intercettazioni, che è ferma da ben otto mesi al Senato. Come se a fermarla non fossero state le resistenze dei magistrati, appena confermate dal nuovo presidente della loro associazione, e insieme la paura del governo di contrastarle. Una paura alla quale ora Renzi dovrebbe avere il coraggio di rinunciare davvero, anche a costo di sentirsi paragonare, su questo problema tanto grave quanto ricorrente, a Berlusconi. Dai cui errori si può dissentire senza disconoscerne le ragioni, che non sono mancate nei rapporti con una magistratura spesso troppo autoreferenziale, come da qualche tempo ammettono anche vecchi campioni dell’interventismo giudiziario. Altrimenti, la subalternità alle toghe diventerebbe irreversibile, a dispetto del primato della politica rivendicato a parole dal presidente del Consiglio.

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