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Cosa penso delle urticanti esternazioni di Piercamillo Davigo

PIERCAMILLO DAVIGO

Ci sono due cose che mi consolano di fronte al putiferio che sta provocando con le sue urticanti esternazioni, vedo anche fra i suoi preoccupati colleghi, il nuovo presidente dell’Associazione Nazionale dei Magistrati Piercamillo Davigo.

La prima consolazione è la durata relativamente breve del mandato, fissata in un anno, essendo stato annunciato proprio con l’elezione di Davigo il ripristino della rotazione annuale, appunto, fra le varie correnti o sigle al vertice del sindacato delle toghe. Rotazione accantonata prima di lui per il clima di emergenza nei rapporti con la politica avvertito dalla categoria nella stagione condizionata dalla forza di Silvio Berlusconi, al governo o all’opposizione. Allora i magistrati sentivano il bisogno di mobilitarsi attorno ad un capo stabile per “resistere, resistere, resistere”, come diceva Francesco Saverio Borrelli, a chi ne minacciava, secondo loro, l’autonomia, l’indipendenza e persino la dignità personale.

Il ritorno alla rotazione, giusta o sbagliata che fosse la motivazione della rinuncia, smentisce da solo la visione dell’emergenza che Davigo mostra di avere ancora dei rapporti con la politica dicendo che tutti i governi, distinguendosi solo nelle parole, avrebbero mostrato in questi anni, e continuerebbe a mostrare quello in carica presieduto da Matteo Renzi, una insofferenza per il cosiddetto controllo di legalità esercitato dal potere giudiziario. O dall’ordine giudiziario, come preferiva precisare la buonanima di Francesco Cossiga anche quando da, capo dello Stato, presiedeva di diritto il Consiglio Superiore della Magistratura. E ancora di più disse da ex presidente della Repubblica, o presidente emerito, come lui stesso volle essere chiamato strappando al primo governo di Massimo D’Alema un decreto di cui hanno poi beneficiato anche i suoi successori, con relativi trattamenti funzionali: prima Oscar Luigi Scalfaro, poi Carlo Azeglio Ciampi e ora Giorgio Napolitano.

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La seconda consolazione procuratami dalle esternazioni, o dagli anatemi di Davigo contro i politici, peggiorati secondo lui nelle pratiche corruttive perché ormai non se ne vergognano nemmeno, diversamente dal passato, quando ogni tanto c’era qualcuno evidentemente, pur non citato da Davigo, capace di uccidersi proprio per vergogna, come capitò di dire una volta ad un magistrato di Mani Pulite, cioè di Tangentopoli; la seconda consolazione, dicevo, è la ragionevole previsione ch’egli non si lascerà tentare dalla politica. Dove già i grillini, solidalissismi con i suoi trancianti giudizi sui palazzi, diciamo così del potere, affollati più di colpevoli da scoprire che d’innocenti da proteggere e premiare, sognano forse di portarlo.

Sarò magari ingenuo, e costretto fra qualche anno a ricredermi, ma credo al voto di castità politica lodevolmente fatto dal nuovo presidente pro-tempore dell’Associazione dei Magistrati in qualcuna delle sue interviste di questi giorni. Lo dico con una franchezza, o fiducia, pari alla diffidenza che mi procurò negli anni Novanta un articolo di Antonio Di Pietro. Che, dimessosi a sorpresa da magistrato quando era all’apice della notorietà procuratagli dalle indagini a Milano su Tangentopoli, promise ai lettori della Stampa, che ne ospitava gli editoriali, di non investire in politica il credito guadagnatosi con la toga. Poi divenne invece ministro nel primo governo di Romano Prodi, nel 1996. E poi ancora senatore dell’Ulivo, nel collegio elettorale blindatissimo e rossissimo del Mugello offertogli dall’allora segretario dell’ex Pci Massimo D’Alema. Vani furono i tentativi di Giuliano Ferrara, da destra, e di Sandro Curzi, da sinistra, di contrastarne la candidatura. “Tonino” fu eletto a mani basse. E da senatore spiazzò poi D’Alema negando la fiducia all’ex braccio destro dell’odiato Bettino Craxi, Giuliano Amato, dal quale lo stesso D’Alema nel 2000, inaspettatamente sconfitto nelle elezioni regionali, volle farsi sostituire a Palazzo Chigi, dove aveva voluto insediarsi nell’autunno del 1998 succedendo a Prodi.

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Di una cosa invece non riesco a consolarmi. O non riesco francamente a capire l’origine: il torto che deve avere fatto il povero Guido Bertolaso a Silvio Berlusconi per procurarsene prima la candidatura a sindaco di Roma, tornando di corsa dall’Africa via Londra, e poi una così rovinosa gestione della corsa al Campidoglio. Che è diventata rapidamente una corsa all’Inferno, peggiore sul piano mediatico e politico persino dei processi che l’ex capo della Protezione Civile sta subendo nei tribunali. E dai quali, per quanto non lo conosca personalmente, gli auguro sinceramente di uscire meglio che dall’avventura romana offertagli dall’ex Cavaliere, sorpreso dagli sgambetti politici prevedibilissimi, invece, della sorella dei Fratelli d’Italia Giorgia Meloni e dell’incontenibile segretario della Lega Matteo Salvini.

Al successore di Umberto Bossi e di Roberto Maroni alla guida del Carroccio sfugge forse che, per quanti circoli romani di partito egli possa inaugurare impugnando i giocattoli delle sue ruspe e riportando alla ribalta come capolista l’ex giovane presidente della Camera Irene Pivetti, nella Capitale la sua Lega dispone di consensi da prefisso telefonico.

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