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Borrelli, Davigo, Scalfari e il giustizialismo misconosciuto

A distanza di 24 anni dall’esplosione di Tangentopoli e di una stagione giudiziaria di cui il nuovo presidente dell’associazione dei magistrati, Piercamillo Davigo, ha riproposto l’attualità sostenendo il carattere inevitabile e salutare di un rapporto conflittuale fra la politica e le toghe, dobbiamo essere grati a Eugenio Scalfari di un importante contributo alla conoscenza del passato. E anche alla valutazione del presente, magari da lui non condivisa nei termini ai quali egli stesso mi ha involontariamente portato.

Ospite di Lilli Gruber a La 7 per parlare della sua nuova fatica letteraria pubblicata da Fetrinelli e chiamata Il labirinto, Scalfari ha rivelato un Francesco Saverio Borrelli inedito come capo della Procura di Milano. Dove praticamente morì fra il 1992 e il 1993 la cosiddetta Prima Repubblica, sepolta poi con le elezioni politiche del 1994 sorprendentemente vinte da Silvio Berlusconi e dalla sua improvvisata Forza Italia.

Il fondatore e allora ancora direttore di Repubblica incuriosì Borrelli per alcune critiche rivolte all’uso troppo frequente e disinvolto delle manette, decise formalmente dai giudici ma proposte con forza dagli inquirenti. Che servivano spesso non come misura cautelare per evitare l’inquinamento delle prove, la reiterazione dei reati e la fuga, secondo il dettato della legge, ma come scorciatoia per far parlare i detenuti. I quali, a loro volta, anche se Scalfari non lo ha detto, pur di tornare in libertà spesso dicevano più che la verità, ciò che gli inquirenti si aspettavano che dicessero. O, peggio ancora, ciò che gli arrestati presumevano che gli inquirenti si aspettassero per chiedere e ottenere altri, più clamorosi arresti, o avviare procedimenti contro personalità politiche tanto eccellenti quanto coperte ancora in quei tempi da troppo ingombranti e abusate immunità parlamentari.

Borrelli volle confrontarsi con Scalfari non da solo, ma con tutti i suoi aggiunti e sostituti procuratori, fra i quali il più “sottile” di loro, che era proprio Davigo. E a tutti onestamente e saggiamente raccomandò di tenere conto delle osservazioni o preoccupazioni espresse dall’ospite. Alla cui condivisione e appoggio, per prestigio personale, linea politica e diffusione del giornale che dirigeva, il responsabile della Procura milanese comprensibilmente teneva.

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Fatti a Scalfari i ringraziamenti dovuti per il contributo che ha voluto dare alla conoscenza dei fatti, ed anche per le riflessioni alle quali in quegli anni tumultuosi cercò di spingere i suoi interlocutori, debbo purtroppo rivelare che il suo fu un tentativo di dissuasione tanto lodevole quanto inutile. Francamente, non ricordo svolte garantiste, ad un certo punto, nella gestione di quel terremoto che continuò ad essere la vicenda di Mani Pulite. A proposito della quale è capitato proprio a Davigo di dire, nella foga delle polemiche cui certo non si sottrae, sino a preoccupare alcuni dei suoi stessi colleghi, che vi fu in quegli anni un eccesso di scarcerazioni, più che di arresti.

 

Ma a Scalfari debbo anche esprimere la sorpresa che mi ha procurato, proprio a causa della sua lodevole rivelazione dell’incontro voluto con lui da Borrelli, la reazione scettica al tema della ” barbarie giustizialista”‘ sollevato di recente dal presidente del Consiglio Matteo Renzi nell’aula del Senato e ripropostogli da Lilli Gruber nello studio televisivo di Otto e mezzo. Uno scetticismo, quello di Scalfari, riservato già al termine e al concetto di “giustizialismo”, da lui interpretato, e perciò contestato, come tentativo o pretesa del potere giudiziario di esondare, prevaricando gli altri previsti e garantiti dalla Costituzione.

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Va bene che, ancora più disinvoltamente di Scalfari, vi sono volenterosi sostenitori o tolleranti di certe abitudini di una certa magistratura che liquidano il giustizialismo con l’antica definizione che si ritrova, per esempio, nel dizionario della lingua italiana di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, come del fenomeno politico rappresentato dal generale Juan Domingo Peron alla guida dell’Argentina e inteso per “allineamento ideologico, nazionalismo, autarchia”. Ma, spostandoci dall’America Latina alla nostra Italia, e passando dagli anni lontani di Peron ai giorni nostri, riconosciamo al giustizialismo il significato che gli spetta, che gli ha voluto dare Renzi nel suo intervento al Senato contestato da Davigo e che è ormai ben compreso anche dall’uomo della strada.

Il giustizialismo è la pratica della giustizia prevenuta, gestita da taluni magistrati, e condivisa da partiti e giornali militanti, secondo cui la condanna è più credibile dell’assoluzione, un avviso di garanzia è il preludio al processo. E, in attesa del processo vero nei tribunali, con i suoi tre gradi di giudizio, può bastare e avanzare quello mediatico, con le intercettazioni ridotte o promosse a “bignè”, come ha scritto in un libro autobiografico l’ex magistrato Piero Tony, con le sue condanne sommarie e inappellabili, e con i suoi altrettanto sommari sputtanamenti: una parolaccia, di cui mi scuso con i lettori, ma compatibile appunto col giustizialismo.

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