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Cosa penso delle bordate di Jens Weidmann

Se Jens Weidmann avesse letto l’articolo di Vincenzo Visco pubblicato sulla Repubblica di oggi (in basso a pagina 29, quella dei commenti), avrebbe potuto citarlo con una certa soddisfazione di fronte al suo pubblico nella residenza dell’ambasciatore tedesco, concludendo legittimamente: vedete che ho ragione io, lo dice anche un rinomato esponente della sinistra ortodossa italiana. “L’Europa non può rappresentare un alibi per i nostri problemi che sono interni e vengono da lontano”, scrive l’ex ministro delle Finanze e snocciola dati incontrovertibili per dimostrarlo, il primo è “il crollo della posizione relativa dell’Italia rispetto agli altri Paesi europei in termini di pil pro capite che nel 2000 era di 17 punti superiore a quello medio, oggi è inferiore di quasi 4 punti”. Un arretramento del 20 per cento.

Colpa dell’euro, direbbero in coro Matteo Salvini e Beppe Grillo. Visco non è d’accordo anche se è spesso critico con il modo in cui la moneta unica è stata costruita e gestita. La sua tesi è che i nostri mali dipendono soprattutto da noi stesi. Basti citare che il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato del 40% dal 2000 al 2014 rispetto a quello tedesco, per capire il divario di competitività tra i due paesi.

L’ex ministro delle Finanze sciorina la propria ricetta, una politica economica in nove punti, al primo posto indovinate che cosa mette? Citiamo letteralmente: “1) Porsi come obiettivo di finanza pubblica a livello nazionale la sola riduzione del debito pubblico e combattere per una politica espansiva a livello europeo”. Consigliamo all’ambasciata tedesca di tradurlo e inviarlo alla Bundesbank. Certo, Weidmann non accetta una politica espansiva a livello europeo, anche se ieri ha difeso la politica monetaria di Draghi negli obiettivi, criticando gli strumenti. Ma concentrarsi sulla riduzione del debito finché si è in tempo, cioè finché non sale di nuovo il costo del denaro, è esattamente quel che il presidente della Buba ha suggerito all’Italia. Una tesi condivisa anche da Draghi che lo ha detto apertamente più volte.

Come farlo? Con l’austerità che, ribatte Pier Carlo Padoan, non ha funzionato in nessun paese del sud Europa, o con la crescita? Per Weidmann non c’è contraddizione tra austerità e crescita perché la prima è precondizione per la seconda. Come è accaduto alla Germania che ha sforato i limiti di Maastricht per il disavanzo, ha realizzato le riforme, ha aumentato la produttività del sistema e si è rimessa in riga in tre anni. Lo ha fatto prima della grande crisi, quando le condizioni erano favorevoli. Vero, ma proprio in quegli anni l’Italia ha ridotto l’attivo strutturale di bilancio e si è trovata indifesa e indebolita quando è arrivato il 2008. E cosa accade adesso, con tassi di interesse addirittura negativi? Il  deficit aumenta, il debito non scende e il risanamento della finanza pubblica s’allontana: ecco la risposta di Weidmann (e di Visco).

Per Renzi e per Padoan l’unico modo di ridurre il debito rispetto al prodotto lordo è aumentare il pil, quindi bisogna spingere da questo lato con una politica basata sul deficit spending. Per Visco l’espansione fiscale può essere fatta solo su base europea, l’Italia non ha spazio, provocherebbe una nuova ondata di sfiducia sui mercati prima ancora che nell’opinione pubblica tedesca. L’ex ministro critica perché è vicino a Pierluigi Bersani, cioè alla minoranza del Pd? Può darsi, ma i suoi argomenti e la sua ricetta sono diversi da quel misto di luxemburghismo (da Rosa Luxemburg) e keynesismo che domina nella sinistra della sinistra. Sul fisco insiste che bisogna ridurre il peso sul lavoro, facendone scendere così il costo, il fattore fondamentale che inchioda l’Italia alla stagnazione. A suo parere il problema è il cuneo non la pressione fiscale, anche perché l’evasione resta molto alta. E’ un punto che lo divide sia dalla destra anti-tasse sia da Renzi.

Le singole proposte possono essere bocciate, ma vale la pena di discuterle. Il governo farebbe bene a non prender cappello di fronte a critiche ben motivate; tanto più quando vengono dal capo della Bundesbank, azionista di maggioranza relativa della Banca centrale europea. Non serve, anzi è scorretto, ribattere elencando tutti gli errori commessi dai tedeschi nel 2008, nel 2010 e ancor oggi (anche se sono davvero tanti); molto meglio prendere atto di come l’Italia viene vista e giudicata da chi è in grado di influenzare i grandi movimenti della moneta (soggetti a valutazioni spesso psicologiche, politiche o anche a pregiudizi) e vedere che cosa si può fare per spingerli a cambiare opinione. Tenendo sempre fermo un fondamentale motto evangelico: medice cura te ipsum.

Stefano Cingolani

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