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Perché non ascolterò più le esternazioni di Piercamillo Davigo

Piercamillo Davigo, Anm

Ogni volta che leggo o ascolto un’intervista a Piercamillo Davigo mi sento come Josef K., l’impiegato di banca protagonista del “Processo” di Kafka: una mattina si sveglia e riceve la visita di due signori che lo dichiarano in arresto. Per che cosa, non è chiaro. Tuttavia, non viene obbligato a seguirli in prigione. Può anche continuare la sua vita normale, ma sapendo che in corso contro di lui un processo. Il resto del romanzo è il racconto degli sforzi, vani, di Josef per entrare in contatto con il tribunale, conoscere il capo d’imputazione, trovare il modo di difendersi. Ho allora deciso che da ora in poi, poiché per il presidente dell’Anm siamo tutti potenzialmente ladri o corrotti (fateci caso: le sue dichiarazioni, raccolte da giornalisti spesso compiacenti se non proprio culturalmente subalterni, sembrano in realtà le requisitorie di un pm), non leggerò e non ascolterò più le sue esternazioni per legittima difesa.

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Quello del rapporto tra democrazia e mercato è uno dei temi che suscitano più contrasti nel dibattito politico, e non solo nella riflessione teorica. Certo è che nel corso della crisi (non ancora del tutto) alle nostre spalle è prevalsa l’idea che l’aumento delle disuguaglianze non sia di per sé un problema, e che il problema vero sia invece la crescita del Pil. Se il Pil cresce – si sostiene – le cose vanno bene anche per i meno abbienti, nonostante il ventaglio delle disuguaglianze. Ergo: ciò che conta non è la distribuzione del reddito, ma la creazione per tutti di pari opportunità. C’è indubbiamente un nocciolo di verità in questa tesi, anche se occorrerebbe sempre tenere presente che una concentrazione eccessiva del reddito e della ricchezza può produrre una sorta eterogenesi dei fini, riducendo per i gruppi sociali meno fortunati proprio le loro chance di successo nella lotteria della vita.

Inoltre, poiché di questi tempi se ne è tornato a parlare molto, è bene ricordare che fra le istituzioni del welfare le pensioni non vanno considerate un diritto di cittadinanza. Si tratta infatti di previdenza obbligatoria e quindi di risparmio forzoso, anche se i sistemi pubblici possono implicare una redistribuzione di risorse che va oltre quella tipica dei meccanismi assicurativi. In linea di principio, come suddividere il reddito personale tra consumi e risparmio è una decisione che spetta alla responsabilità di ciascun individuo. Ma poiché l’esperienza dimostra che questa è difettosa, lo Stato costringe i cittadini a premunirsi di fronte ai bisogni e ai rischi che si manifestano nel corso dell’esistenza, anche per evitare che il loro costo ricada sulla collettività. Il caso delle pensioni è il più clamoroso, ma non è l’unico: lo Stato rende obbligatorie, ad esempio, anche l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e quella per i sinistri automobilistici.

Tutto ciò per sottolineare che i diritti sociali, anche nella loro espressione monetaria, sono sempre delle “conditional opportunities”: significa che la loro esigibilità dipende costantemente, in misura che non ha confronto con i diritti civili e politici, dalle risorse create dal mercato e dal gioco dei rapporti di forza che emergono conflittualmente nella società. Possiamo anche tuonare contro gli speculatori, contro una finanza sregolata, contro un capitalismo rapace e contro la legge Fornero, ma quando le risorse sono scarse o limitate un governo serio deve fare nuovamente i conti con questo fatto. E i fatti, si sa, hanno la testa dura.

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