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Tutti nodi sul tavolo nella visita di Obama in Arabia Saudita

Mercoledì 20 aprile il presidente americano Barack Obama è in visita speciale a Riad, capitale dell’Arabia Saudita. Mai i rapporti tra i due paesi sono stati così freddi, anche se sui media internazionali alti funzionari sauditi, quasi sempre anonimi, dicono che quel “freddo” non è filtrato fino ai livelli operativi (dichiarazioni che arrivano anche in occasione della visita): la cooperazione resta, dicono, soprattutto in ambito militare/antiterrorismo ed economico.

NON TUTTO ORO (NERO), ETC ETC

La prosperità “oil-fueled” (copyright New York Times) dei sauditi è stata interrotta da sensazioni inesplorate: l’imposizione delle tasse sui cittadini, l’idea di privatizzare la grande compagnia petrolifera Aramco, il declassamento del debito da parte di Fitch e Standards & Poor, le aziende che lavorano con i contratti statali che faticano a pagare gli stipendi, la richiesta di un credito alle banche straniere (per la prima volta in oltre un decennio), gli spari sul confine sud del paese, i manifestanti che hanno assaltano l’ambasciata a Teheran, le guerre civili negli stati limitrofi (Siria, Iraq, Yemen, Sinai), le prime infiltrazioni dello Stato islamico. La caduta del prezzo del petrolio, abbinato alla destabilizzazione regionale che coinvolge il Medio Oriente, hanno un peso sulla psicologia del popolo saudita, intaccano le casse del regno, portano Riad a dover affrontare una politica più assertiva fatta non soltanto col libretto degli assegni. E tutto questo perché gli Stati Uniti, gli amici d’interesse, si stanno disinteressando al rapporto e alle dinamiche ad esso collegate, posizione figlia del disimpegno obamiano ma anche del quasi raggiungimento dell’indipendenza energetica che svincola Washington dai necessari legami nel Golfo. “Si tratta di un concerning factor per noi se l’America si tira indietro”, ha detto Turki al Faisal, membro della famiglia reale saudita, ex capo dei servizi segreti ed ex ambasciatore negli Stati Uniti che il NYTimes definisce “uno senza peli sulla lingua”: “L’America è cambiata, anche noi siamo cambiati, e per questo dobbiamo riallinearci e riaggiustare la nostra comprensione reciproca”, ha spiegato il principe (sempre per quel discorso che “il freddo” non è arrivato ai piani operativi).

IL RICATTO SULL’11 SETTEMBRE

Nonostante i funzionari di entrambe le parti cerchino di mimetizzare le tensioni evocando il rapporto preferenziale e l’amicizia storica, Obama avrà un’accoglienza rigida; il presidente ha inserito i sauditi, alla stregua di altri alleati europei, tra i “free riders” dell’antologica intervista all’Atlantic, cosa che non è piaciuta nel Golfo. Situazione complicata anche dagli ultimi passaggi legati alla tragica vicenda dell’11 settembre, momento che ha scombussolato gli equilibri mondiali (non ci si stancherà mai di ripeterlo) in epoca contemporanea. La questione: il Congresso statunitense starebbe pensando ai modi legali per superare una giurisprudenza del 1976 che dà immunità diplomatica ai sauditi, sotto le pressioni dei famigliari dei morti del 9/11, che vorrebbero portare in tribunale anche banche, istituzioni, funzionari del regno, forse coinvolti nell’attentato. Perché adesso? Perché la CBS prima e il New York Times dopo, hanno rispolverato un lato oscuro del dossier d’inchiesta, 28 pagine mai de-secretate e nelle quali sarebbero tracciate le dinamiche del coinvolgimento, e i nomi di alcuni funzionari, saudita nell’attacco: in particolare, un diplomatico di servizio a Los Angeles avrebbe avuto intensi rapporti con Omar al Bayoumi, un altro saudita, che è considerato il benefattore dei 19 kamikaze che hanno colpito New York e il Pentagono. Una vicenda scabroso su cui Riad ha subito alzato il livello, minacciando di far mancare 700 miliardi di investimenti nell’economia americana, se la legge dovesse passare.

LA SITUAZIONE REGIONALE E LA POLITICA ASSERTIVA SAUDITA

Se non fossero tempi critici, il governo saudita non avrebbe preso posizioni così nette, o almeno non così apertamente. Ma Riad si sente minacciata da vicino e sente debole l’assistenza americana. È innegabile che la politica espansionistica iraniana, resa adesso sostenibile dal sollevamento delle sanzioni internazionali conseguente al deal nucleare, abbia portato la Repubblica islamica sciita in un momentaneo vantaggio di influenza rispetto alla monarchia sunnita: paesi cruciali della regione, come Siria, Iraq, Libano, Yemen, subiscono fortemente l’influsso di Teheran. L’Arabia Saudita ha il sopravvento demografico, ma non basta: questo esce delle visioni del ministro della Difesa Mohammed bin Salman, trentenne, secondo in linea di successione, che è il vero artefice della politica assertiva saudita. È stato lui, per esempio, a decidere di sospendere gli aiuti economici del valore di oltre 3 miliardi al Libano, che Beirut avrebbe dovuto spendere per acquistare armi francesi per rinforzare l’esercito: una decisione in netta controtendenza con gli americani (che ancora continuano a rifornire di armi i libanesi). La motivazione: i legami troppo forti stretti tra Iran e Libano; nell’ottica la presenza sempre più dominante del partito/milizia sciita Hezbollah: questione che ha messo in imbarazzo Washington, fatto passare dalla decisione saudita come un paese che rifornisce di armi un gruppo incasellato tra le organizzazioni terroristiche. Sempre al principe, e alla politica di indipendenza e assertività da lui promossa, si legano altri importanti passaggi del presente saudita: a inizio marzo è stata annunciata l’intenzione di aprire una base militare a Gibuti (anche qui in concorrenza con quella già presente americana, da cui partono i droni che colpiscono al Qaeda in Somalia e Yemen); motivazione: proiettare il paese all’estero. Alla fine dello stesso mese il ministro ha inaugurato una nuova fabbrica di armamenti nel centro del paese, ad al Kharj. Si ricorderà poi, che sempre a lui si lega l’iniziativa inter-regionale per creare la cosiddetta “Nato islamica”, alleanza militare e politica di paese arabi, sunniti, pensata con il fine esplicito di combattere il terrorismo in Medio Oriente, e quello implicito di contenere l’Iran.

LO SPECCHIO IN SIRIA E YEMEN

Il contenimento dell’Iran è un elemento centrale della politica saudita in questo momento: l’odio esistenziale reciproco ha, per esempio, portato Riad a far saltare l’accordo per il congelamento delle produzioni di petrolio che doveva essere firmato a Doha domenica scorsa. Motivazione: l’Iran non avrebbe accettato di ridurre le proprie produzioni, e dunque avrebbe conquistato una fetta di mercato, e magari di influenza. Certe questioni si giocano su campi asimmetrici. Il conflitto in Yemen è uno di questi: Riad s’è portata dietro il Pakistan e l’Egitto, alleati tra i più consistenti della coalizione, e questo per i sauditi ha significato ottenere i consensi di Francia, che ha forti legami col Cairo in questo momento (anche grazie ai soldi sauditi), e Londra, che ha con Islamabad collegamenti storici e duraturi. Proprio il governo inglese è al centro di una storia che sta indispettendo l’opinione pubblica: Downing Street avrebbe dato l’ok per una fornitura di armamenti da 2,8 miliardi di pound che i sauditi hanno utilizzato anche in Yemen, un guerra senza sbocchi, che non ha riportato pace nel paese, che Riad sta combattendo per procura contro l’Iran (che ha forte appeal tra i ribelli Houthi), che ha fatto crescere le aree controllate da al Qaeda, e che ha prodotto molte vittime civili. Una prima risposta negativa alla domanda se i sauditi avranno il physique du role per sostenere le proprie ambizioni.

L’Arabia Saudita cerca in Francia e Regno Unito le sponde occidentali che non trova più negli Stati Uniti. La Siria è un altro dei territori asimmetrici in cui i sauditi provano a spingere ed in cui hanno interpretazioni diverse da Washington: i primi vorrebbero combattere contemporaneamente lo Stato islamico ed il regime di Bashar el Assad, e per questo non tollerano l’impunità lassista che gli americani stanno facendo cadere sul rais, alleato, nella prammatica della guerra, perché combatte anch’egli e i suoi alleati russi (anche se solo in apparenza) i baghdadisti. Il nuovo (in realtà vecchio) punto di scontro, con i negoziati di Ginevra attualmente in corso ma sul punto di saltare, è la fornitura di armi tecnologiche, leggasi antiaeree, ai ribelli. Armi che secondo i sauditi le opposizioni userebbero non certo contro l’Isis, che non ha un’aviazione, ma contro i lealisti.

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