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Cosa succede in caso di vittoria del No al referendum costituzionale?

Al Quirinale debbono avere ben evidenziato, nella quotidiana rassegna stampa per il presidente della Repubblica, il passaggio di una recentissima intervista dell’ex presidente della Camera Gianfranco Fini, schieratosi nel fronte referendario del no alla riforma costituzionale. E convinto che, in caso di sconfitta di Matteo Renzi e di crisi, il compito di Sergio Mattarella non sia per niente complesso, come temono invece in tanti, a cominciare appunto dal Quirinale. Dove non si saprebbe dove andare a sbattere la testa.

Il problema di Sergio Mattarella sarebbe, per Fini, solo quello, semplice, anzi semplicissimo, d’inventarsi un governo capace di guadagnarsi la fiducia delle Camere per rifare rapidamente un’altra, nuova legge elettorale, sostitutiva sia di quella chiamata Italicum, applicabile da luglio, ma valida solo per la Camera, sia di quella vecchia, chiamata Porcellum, già amputata del premio maggioranza dalla Corte Costituzionale e applicabile ormai solo per il Senato. E poi andare alle elezioni anticipate. Le due Camere, cioè, sopravvissute nell’attuale attribuzione degli stessi compiti, dovrebbero fare ciò che reclamava Bertoldo: trovare l’albero al quale farsi impiccare.

Il fatto è che in caso di crisi Fini, essendo ex presidente o capo di tutto ma non della Repubblica, non rientra neppure negli elenchi tradizionali delle consultazioni al Quirinale.

Il presidente del Consiglio fa comunque le corna e ostenta da Firenze la sicurezza di vincere, lanciando una campagna per la formazione di diecimila comitati per il sì.

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Una curiosa mano a Renzi, sia pure sotto forma di critica, è stata data nel dibattito sul referendum costituzionale da Stefano Rodotà, schierato naturalmente pure lui nel fronte del no con Fini, Berlusconi, Salvini, Meloni, Grillo, Vendola, Gustavo Zagrebelski, Magistratura Democratica ed altro ancora. Secondo l’ex candidato grillino al Quirinale, i destini del governo in carica andrebbero separati dall’esito del referendum, contrariamente a quanto vorrebbe, appunto, Renzi.

Una vittoria dei no e le dimissioni di Renzi dovrebbero pertanto indurre il capo dello Stato a rinviare il governo alle Camere, che potrebbero a loro volta obbligare Renzi a restare, e a lasciarsi logorare definitivamente nella ricerca dell’albero di Bertoldo.

Ma Rodotà è un altro di quelli, ex di tante cose, escluso dall’elenco tradizionale delle consultazioni presidenziali in caso di crisi. Se più per fortuna o disgrazia, non so.

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Già professore di Matteo Renzi all’Università di Firenze, simpatizzante per lui con il figliolo, dirigente alla Rai, e soprattutto presidente emerito, cioè ex, della Corte Costituzionale, Ugo De Siervo ha scomodato Platone per spiegare l’adesione al fronte referendario del no alla riforma del bicameralismo ed altro ancora.

“Amicus Plato, sed magis amica veritas”, ha detto l’emerito al Corriere Fiorentino traducendo per gli incolti: Platone è amico, ma è più amica la verità.

Verità, ahimè, è anche la traduzione in italiano della Pravda, lo storico giornale ufficiale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Che di verità purtroppo ne raccontava ben poche, essendo nata per nasconderle.

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E’ impressionante la sequela d’insulti che Matteo Renzi si è rimediato fra gli internauti per avere rivendicato nel salotto televisivo di Domenica in, alla Rai, la sua “fedina penale pulita”, opponendola a quelle sporche di Beppe Grillo e di Silvio Berlusconi. Pochissime le voci di consenso. E’ mancata, sia fra le prime sia fra le seconde, quella di Piercamillo Davigo, il nuovo e urticante presidente dell’associazione nazionale dei magistrati, che per fortuna non naviga in internet. O naviga in incognito.

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Prima ancora di sentirlo a Domenica in, Lucia Annunziata ha rappresentato Renzi come peggio, francamente, non si poteva parlandone così al Fatto Quotidiano, ben felice ovviamente di offrirle l’occasione: “E’ arrivato a Roma con una cavalcata sfondando il portone di Palazzo Chigi a calci. Per questo, più di altri, ha bisogno di stabilizzare il suo dominio. Quel che resta dei poteri forti ci ha messo poco tempo per saltare sul carro. Restavano da conquistare due categorie: i giornalisti e la base del suo partito. Ha fatto  grandi sforzi per conquistare i primi e completamente ignorato i secondi. Non ha lavorato nemmeno dieci minuti per ristabilire quella che ai tempi del Pci si chiamava “la connessione sentimentale” con il Paese e i suoi elettori”.

Presumo che Massimo D’Alema si sarà affrettato a inviare all’Annunziata, in meno di mezz’ora, che è il titolo del suo spazio televisivo domenicale di Rai 3, un cartone dei suoi vini più pregiati, rigorosamente rossi per la circostanza.

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Di rosso invece il deputato Ignazio Abrignani ha assicurato di non avere visto nulla nell’ufficio del gruppo parlamentare del Pd della Camera dove ha partecipato con Denis Verdini ed altri esponenti di Ala, come si chiama il raggruppamento degli ultimi fuoriusciti da Forza Italia, ad un incontro coi capigruppo e un vice segretario del partito di Renzi. Un incontro che ha segnato l’inizio di una sistematica consultazione sulle iniziative del governo, ma non l’ingresso nella maggioranza, come si è voluto pudicamente precisare da parte dei dirigenti piddini di fronte alle proteste delle minoranze del partito.

Quello di Verdini non sarebbe poi un ingresso ma un ritorno, come ha ricordato Renzi agli avversari, visto che l’amico di Firenze e i suoi facevano parte, con Berlusconi, della prima maggioranza del governo di Enrico Letta, sino alla rottura fra lo stesso Berlusconi, passato all’opposizione nell’autunno del 2013 per protesta contro la sua decadenza para-giudiziaria da senatore, e Angelino Alfano. Col quale, a questo punto, il buon senso vorrebbe che Verdini si ricongiungesse, riconoscendogli il merito di averci azzeccato per primo. Troppo semplice, evidentemente, per essere realistico.

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