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Tutti gli sbuffi della minoranza Pd sui giornali pro Sì al referendum costituzionale

Matteo Renzi è in buona compagnia negli attacchi che gli fanno gli avversari interni di partito per come ha deciso di gestire la lunga, anzi lunghissima campagna referendaria sulla riforma costituzionale. Una campagna da “corrida”, l’ha criticamente definita Enrico Letta, pur favorevole alla riforma, procurandosi il velenoso rimprovero di aver fatto poco, anche in questo campo, ai tempi in cui c’era lui a Palazzo Chigi.

Se provate a parlare nei corridoi parlamentari con gli esponenti della minoranza del Pd, rispettando però l’impegno di non farne i nomi per paura di ritorsioni mediatiche, considerate in qualche modo anche peggiori di quelle politiche, sentirete criticare, più ancora del presidente del Consiglio e della sua ministra delle riforme Maria Elena Boschi, i giornali di quella che viene comunemente chiamata “la catena editoriale di Carlo De Benedetti e Sergio Marchionne”. Sono la Repubblica, la Stampa, Il Secolo XIX, L’Espresso e i quotidiani locali dell’omonimo gruppo. Ad essi i dissidenti del Pd aggiungono, sul versante di quella comunemente chiamata ancora area di centrodestra, Il Foglio fondato da Giuliano Ferrara ed ora diretto da Claudio Cerasa, Libero, appena tornato sotto la direzione di Vittorio Feltri, e Il Tempo di Roma, entrambi ora della famiglia di Antonio Angelucci: un deputato e imprenditore della sanità rimasto ancora col cuore nel gruppo berlusconiano di Forza Italia ma legatissimo per molte buone ragioni anche al senatore toscano Denis Verdini. Che si è schierato sul fronte referendario del sì ed è sceso in campo apertamente anche con i candidati renziani nella campagna elettorale in corso per le amministrative: per esempio, a Cosenza e a Napoli, ma anche altrove.

Sono infine orientati più verso il sì che verso il no giornali di area moderata come quelli del gruppo Riffeser Monti – QN Il Giorno, la Nazione e il Resto del Carlino – e i quotidiani di Francesco Gaetano Caltagirone: il Messaggero, il Mattino e il Gazzettino Veneto, cui fa compagnia il Messaggero Veneto nella limitrofa regione Friuli Venezia Giulia, saldamente governata dalla vice segretaria renzianissima del Pd Debora Serracchiani.

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Fra tutti i giornali schierati, secondo gli avversari di Renzi, sul fronte referendario del sì, per non parlare di quelli pugliesi, calabresi e siciliani, anch’essi sospettati di tendenza ormai renziana, il più bersagliato e tacciato di cambiamento di campo è la Repubblica diretta da gennaio da Mario Calabresi. Cui ogni giorno i dissidenti del Pd fanno, diciamo così, le pulci per lamentare la lettera di Alfredo Reichlin contro il carattere plebiscitario del referendum relegata all’interno, sia pure con un richiamino in prima pagina, o l’articolo del costituzionalista Alessandro Pace, assai critico verso la riforma costituzionale, “confinato” sempre all’interno, ma senza neppure un richiamo.

Del resto, si fa presto a “processare” un giornale, quando si vuole. O ad osservare col microscopio l’articolo di qualche editorialista – nel nostro caso quelli quasi quotidiani del notista Stefano Folli, già direttore del Corriere della Sera – per scorgervi segni di distinzione, se non di dissenso, dalla linea del quotidiano desunta da altre pagine ed altri articoli.

In questo “processo” a Repubblica gli avversari interni di Renzi hanno nelle ultime ore inserito a loro vantaggio, interpretandolo come polemico proprio verso il quotidiano diretto da Calabresi, un editoriale del direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana contro la pretesa di fare indossare ad un giornale, inteso in senso lato, una “casacca” nella campagna referendaria avviata da Renzi con la costituzione dei comitati del sì e il lancio degli slogan a favore della sua riforma. Un quotidiano serio, secondo Fontana, deve limitarsi ed esporre equamente ai lettori il contenuto delle modifiche apportate alla Costituzione, senza influenzarli in un modo o nell’altro, cioè lasciandoli liberi di scegliere autonomamente per il sì o per il no. Come se bastasse un editoriale, per quanto scritto da un giornalista o professore autorevole, a convincerli in un verso o nell’altro.

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Tuttavia è proprio qui, in questo argomento dell’editoriale autorevole, che immagino si annidi l’intima difesa di Mario Calabresi.

Alla Repubblica lo spazio e la collocazione delle cronache e dei commenti favorevoli alla riforma costituzionale voluta dal presidente del Consiglio, o sensibili ai rischi politici derivanti da una vittoria del no, a cominciare dalla conseguente crisi di governo annunciata o minacciata dall’ex sindaco di Firenze, potranno anche risultare prevalenti. Ma la voce, festiva e feriale, del prestigioso fondatore Eugenio Scalfari, per quanto diventata indulgente con Renzi su altri versanti, è rimasta su questo punto contraria: sia sul quotidiano sia sul settimanale – l’Espresso – dello stesso editore.

Il no di Scalfari alla riforma, e al referendum cosiddetto confermativo, per scongiurare – ha scritto lo stesso Scalfari domenica scorsa anche nel titolo del suo editoriale – che Renzi diventi “padrone” e perciò “un disastro”, potrebbe capovolgersi in un sì solo se il presidente del Consiglio e segretario del Pd accettasse una compensativa modifica della nuova legge elettorale della Camera chiamata Italicum, basata sui capolista bloccati, eletti cioè senza bisogno di preferenza, e soprattutto sul premio di maggioranza alla lista, e non alla coalizione più votata, con o senza ballottaggio. Ma proprio dopo questa rinnovata richiesta di Scalfari è arrivata, nella stessa giornata di domenica, in un confronto televisivo con Lucia Annunziata, la risposta negativa della ministra renzianissima delle riforme Maria Elena Boschi.

E’ pertanto prevedibile che il no di Scalfari resti utile anche al direttore di Repubblica per contestare “la casacca” del sì attribuitagli dagli antirenziani maneggiando contro di lui l’immagine del direttore del Corriere della Sera, che forse l’ha usata senza volersi riferire al collega, e credo anche amico, Calabresi.

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